Bevve un altro piccolo sorso del suo vino e tornò all’ultima annotazione del diario. Risaliva a molti giorni prima, e dopo averla scritta aveva abbandonato l’abitudine di una vita, smettendo di registrare ogni giorno le sue attività e i suoi pensieri.
In un certo senso quello era stato un suicidio simbolico, e lo preparava a quello reale di quella notte.
GIORNO 114 — La guerra è finita.
Il flagello dei ptertha ha fatto il lavoro al nostro posto.
Nell’arco di soli sei giorni da quando i ptertha violacei hanno fatto la loro comparsa a Chamteth, l’epidemia si è diffusa nel continente in lungo e in largo, spazzando via gli abitanti a milioni. Un rapido e fortuito genocidio!
Non dobbiamo più procedere a piedi, aprendoci la strada iarda per iarda contro un nemico irriducibile. Invece, avanziamo con l’aeronave, con i reattori continuamente in funzione. Viaggiare in questa maniera richiede grandi quantità di cristalli di energia, sia per il sistema di propulsione che per i cannoni anti-ptertha, ma ormai queste considerazioni non sono più importanti.
Noi siamo i fieri conquistatori di un intero continente di brakka maturi e di vere e proprie montagne di cristalli verdi e purpurei. Non dividiamo la nostra ricchezza con nessuno. Leddravohr non ha ritirato il suo ordine di non prendere prigionieri, e i gruppetti isolati di Chamtethani disorientati e demoralizzati che incontriamo vengono passati a fil di spada.
Ho volato sopra città, paesi e villaggi e fattorie dove niente vive, eccezion fatta per gli animali domestici vaganti. L’architettura è interessante: pulita, ben proporzionata, solenne; ma uno deve ammirarla da lontano. Il fetore dei cadaveri in putrefazione arriva fino al cielo.
Non siamo più soldati.
Siamo i portatori della pestilenza.
Noi siamo la pestilenza.
Non ho nient’altro da dire.
Il cielo notturno, sebbene nell’insieme fosse molto meno luminoso che a Kolcorron, era rischiarato dalla luce nebulosa di un’enorme spirale rotonda, i cui bracci scintillavano di stelle bianche, gialle e blu.
Quella ruota era fiancheggiata da altre due grandi spirali ellittiche, e il resto della volta celeste era generosamente variegata di piccoli mulinelli, ciuffi e macchie di fulgore, oltre alle code luccicanti di un certo numero di comete.
Anche se l’Albero non era visibile, il cielo era punteggiato di stelle molto luminose che sembravano più vicine di tutti gli altri corpi celesti, e davano all’immagine un’illusione di profondità.
Toller era abituato a vedere quelle configurazioni solo quando Mondo era dalla parte opposta del suo cammino intorno al sole, quando erano protette ed esaltate dal grande disco di Sopramondo.
Rimase immobile nella semioscurità, guardando i riflessi delle stelle tremolare nel largo specchio calmo delle acque del Fiume Arancione. Tutt’intorno a lui le miriadi di luci smorzate del quartier generale della Terza Armata brillavano in mezzo agli alberi della foresta, dal momento che i giorni degli accampamenti aperti erano passati con l’avvento del flagello dei ptertha.
Per tutto il giorno una domanda aveva assillato la sua mente. “Perché il generale Dalacott dovrebbe volere un colloquio privato con me?”
Aveva trascorso un breve periodo di inattività in un campo di transito venti miglia a ovest, parte di un’armata che, improvvisamente, non aveva più niente da fare, e stava cercando di adattarsi al nuovo ritmo di vita quando il comandante del battaglione gli aveva ordinato di presentarsi a rapporto al quartier generale. Arrivando era stato esaminato brevemente da vari ufficiali, uno dei quali ritenne fosse Vorict, l’aiutante maggiore. Gli era stato detto che il generale Dalacott desiderava conferirgli di persona i dischi al valore. Gli ufficiali erano evidentemente sconcertati dall’inusuale disposizione, e l’avevano discretamente sondato per saperne di più prima di capire che lui era ignaro della faccenda quanto loro.
Un giovane capitano uscì dal vicino recinto del settore amministrazione, si avvicinò a Toller nel buio luccicante di stelle e disse: — Tenente Maraquine, il generale vuole vedervi adesso.
Toller fece il saluto e seguì l’ufficiale verso una tenda che, inaspettatamente, era piuttosto piccola e disadorna. Il capitano lo fece entrare e se ne andò subito. Toller rimase sull’attenti davanti a un uomo magro, dall’aspetto austero, seduto a una scrivania portatile. Nella fioca luce di due lampade da campo i corti capelli del generale sarebbero potuti essere sia bianchi che biondi, e lui sembrava sorprendentemente giovane per essere un uomo con cinquantanni di distinto servizio.
Solo i suoi occhi sembravano vecchi, occhi che dovevano aver visto più di quello che era possibile sognare.
— Sedetevi, figliolo — disse. — Questo è un incontro assolutamente informale.
— Grazie, signore. — Toller prese la sedia indicata, mentre la sua perplessità cresceva.
— Vedo dalle vostre note caratteristiche che siete entrato nell’esercito meno di un anno fa come soldato semplice. So che i tempi sono cambiati, ma non è comunque strano per un uomo del vostro status sociale?
— E stata una decisione del principe Leddravohr.
— Leddravohr è un vostro amico?
Incoraggiato dai modi schietti ma amabili del generale, Toller si permise un sorriso ironico. — Non posso vantare questo onore, signore.
— Bene! — Dalacott sorrise a sua volta. — Così avete ottenuto il grado di tenente in meno di un anno solo grazie ai vostri meriti.
— Normali azioni di battaglia, signore. Non gli si può dare molto peso.
— Lo avranno invece. — Il generale fece una pausa per bere un sorso dalla coppa smaltata. — Perdonatemi se non vi offro niente da bere; questo è un infuso strano e dubito che sarebbe di vostro gusto.
— Non ho sete, signore.
Forse vi piacerebbe questo, invece. — Aprì un cassetto della sua scrivania e tirò fuori tre dischi al valore. Erano lamine circolari di brakka intarsiate di vetro bianco e rosso. Le porse a Toller. e si appoggiò allo schienale per osservare le sue reazioni.
— Grazie. — Toller passò le dita sui dischi e se li mise in tasca. — Sono onorato.
— Lo nascondete piuttosto bene.
Toller era imbarazzato e sconcertato. — Signore, non intendevo nessuna…
— È tutto a posto, figliolo — disse Dalacott. — Ditemi, la vita militare non è come ve l’aspettavate?
— Sin da quando ero bambino ho sognato di essere un guerriero, ma…
— Eravate preparato a pulire il sangue di un nemico dalla vostra spada, ma non pensavate ci avreste trovato sopra anche i resti del suo pranzo.
Toller affrontò apertamente lo sguardo del generale. — Signore, non capisco perché mi abbiate fatto venire qui.
— Penso che sia stato per darvi questo. — Dalacott aprì la mano destra rivelando un piccolo oggetto che gli fece cadere nel palmo.
Toller rimase sorpreso dal suo peso, dal massiccio impatto sulla sua mano. Avvicinò l’oggetto alla luce e guardò con curiosità il colore e la lucentezza della superficie levigata. Il colore era diverso da qualunque altro avesse mai visto prima, bianco ma in qualche modo più che bianco, e somigliava a quello del mare quando rifletteva indirettamente i raggi del sole. L’oggetto era tondeggiante come un ciottolo, ma sarebbe quasi potuto essere un teschio in miniatura, i cui dettagli fossero stati consumati dal tempo.
— Che cos’è? — chiese Toller. Dalacott scosse la testa. — Non lo so. Nessuno lo sa. L’ho trovato nella provincia di Redant molti anni fa, sulle rive del Bes-Undar, e nessuno è mai stato in grado di dirmi cosa sia.
Toller chiuse le dita intorno all’oggetto tiepido e si trovò involontariamente a sfregarvi sopra il pollice con lenti movimenti circolari. — Una domanda conduce a un’altra, signore. Perché volete che sia io ad averlo?
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