Connie Willis - L'anno del contagio

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Per la giovane Kivrin, che si prepare a studiare dal vivo una delle epoche più oscure della storia, regno della paura, della superstizione e di tremendi flagelli, viaggiare nel tempo è un'esperienza unica e affascinante, ma in fondo non troppo difficile: l'importante è prepararsi con cura e osservare scrupolosamente tutte le regole perché il suo improvviso arrivo nel XIV secolo risulti plausibile e, soprattutto, passi inosservato. Il resto è compito di una straordinaria tecnologia che rende possibile un simile trasferimento temporale. Tuttavia il suo viaggio nel Medioevo, dove l'esistenza quotidiana è un'avventura per la sopravvivenza e dove si sta scrivendo un nuovo libro dell'Apocalisse, sarà molto più che la realizzazione di un sogno.

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Dunworthy aprì la porta della chiesa, socchiudendo gli occhi per proteggersi dalla luminosità che si aspettava di trovare, ma mentre erano nella chiesa si era fatto più buio, il cielo era coperto e c'era odore di neve nell'aria. Con passo rapido attraversò il cortile della chiesa fino alla torre campanaria, mentre la mucca che Colin aveva visto quando erano entrati nel villaggio oltrepassava il cancello del portico e si avviava fra le tombe per raggiungerli, con gli zoccoli che sprofondavano nella neve.

— A che serve suonare la campana se non c'è nessuno che possa sentirla? — ripeté Colin, fermandosi per spegnere la torcia e poi rimettendosi a correre.

Dunworthy entrò nella torre campanaria, che era buia e fredda quanto la chiesa e puzzava di topo. La mucca fece capolino all'interno e Colin s'insinuò al di là di essa, fermandosi a ridosso del muro curvo.

— È lei quello che continua a dire che dobbiamo tornare al sito, altrimenti la rete si chiuderà e resteremo bloccati qui — dichiarò. — È stato lei a dire che non avevamo neppure il tempo di trovare Kivrin.

Dunworthy si fermò un momento per dare ai suoi occhi il tempo di abituarsi all'oscurità e per trarre un respiro. Aveva camminato troppo in fretta e la morsa era riapparsa a serrargli il petto. Sollevò lo sguardo verso la corda che pendeva sopra di loro nell'oscurità, con un nodo dall'aria unta a una trentina di centimerti dall'estremità logora.

— Posso suonarla io? — domandò Colin, guardando in alto.

— Sei troppo basso — gli fece notare Dunworthy.

— Non lo sono — protestò il ragazzo, e spiccò un salto per afferare la corda, riuscendo a prendere la sua estremità, al di sotto del nodo, e restando appeso per parecchi secondi prima di lasciarsi ricadere. La corda però non si mosse quasi e la campana emise una vibrazione sommessa e stonata, come se qualcuno l'avesse colpita su un fianco con una roccia. — È pesante — disse.

Dunworthy sollevò le braccia e afferrò la corda fredda e ispida, assestando un brusco strattone verso il basso senza essere certo di potersela cavare meglio di Colin. La corda gli affondò nelle mani. Bong.

— È forte! — esclamò Colin, premendosi le mani sugli orecchi e sollevando lo sguardo verso l'alto con espressione deliziata.

— Uno — disse Dunworthy. Uno e su. Ricordandosi degli Americani, piegò le ginocchia e tirò la corda dritto verso il basso. Due. E su. E tre.

Si chiese come avesse fatto Kivrin a suonare anche un solo colpo con le costole fratturate. Quella campana era molto più pesante e stentorea di quanto avesse immaginato, e il suo suono sembrava riverberargli nella testa e nel torace serrato. Bong.

Ripensò alla Signora Piantini, che piegava le gambe grassocce e contava fra sé. Cinque. Fino a quel momento non si era reso di quanto fosse faticoso suonare le campane. Ogni tiro della corda sembrava strappargli il respiro dai polmoni. Sei.

Avrebbe voluto fermarsi per riposare ma non voleva che Kivrin, in ascolto dentro la chiesa, pensasse che si era arreso, che aveva avuto intenzione di finire soltanto ciò che lei aveva cominciato. Accentuò la stretta intorno al nodo e si appoggiò per un istante alla parete di pietra, cercando di attenuare la tensione al petto.

— Si sente bene, Signor Dunworthy? — chiese Colin.

— Sì — rispose lui, e tirò con tanta violenza che i polmoni parvero lacerarglisi. Sette.

Non avrebbe dovuto appoggiarsi contro il muro, perché le pietre erano fredde come il ghiaccio e adesso aveva ricominciato a rabbrividire. Pensò alla Signora Taylor che cercava di finire la Sorpresa di Chicago in chiave minore, contando quanti colpi mancavano e cercando di non cedere al martellamento che avvertiva nella testa.

— Posso finire io — si offrì Colin, senza che lui quasi lo sentisse. — Posso andare a chiamare Kivrin e insieme riusciremo a suonare gli ultimi due colpi. Tireremo tutti e due.

— Ogni uomo deve restare alla sua campana — rifiutò Dunworthy, scuotendo il capo con il fiato corto, e tirò ancora la corda. Otto.

Non doveva lasciar andare la corda. La Signora Taylor era svenuta e l'aveva lasciata andare, e la campana aveva ondeggiato da un lato all'altro con la corda che si contorceva come una cosa viva, avvolgendosi intorno al collo di Finch e quasi strozzandolo. Doveva restare aggrappato ad essa, nonostante tutto.

Tirò ancora la corda, restando appeso ad essa finché non fu certo di potersi reggere in piedi, poi allentò la tensione.

— Nove — disse.

Colin lo stava fissando con espressione accigliata.

— Sta avendo una ricaduta, non è così? — chiese, in tono sospettoso.

— No — ribatté Dunworthy, e lasciò andare la corda.

La mucca aveva infilato la testa nella porta e lui la spinse di lato rudemente per tornare nella chiesa.

Al suo ingresso trovò Kivrin ancora inginocchiata accanto a Roche, con la mano rigida del morto sempre stretta nella sua.

— Ho suonato la campana — disse, fermandosi davanti a lei. Kivrin sollevò lo sguardo senza annuire.

— Non crede che ora sarebbe meglio andare? — suggerì Colin. — Si sta facendo buio.

— Sì — assentì Dunworthy. — Credo che faremo meglio…

L'attacco di vertigine lo colse del tutto alla sprovvista e barcollò, cadendo quasi addosso al corpo di Roche.

Kivrin protese la mano per sorreggerlo e Colin si tuffò in avanti con la luce della torcia che ondeggiava in maniera assurda sul soffitto, afferrandolo per un braccio. Lui stesso si puntellò su un ginocchio e con il palmo della mano e protese l'altra verso Kivrin, che però era scattata in piedi e stava indietreggiando.

— È malato — disse in tono di accusa, di condanna. — Ha preso la peste, vero? — aggiunse, tradendo per la prima volta nella voce una traccia di emozione. — Non è vero?

— No — replicò Dunworthy, — è…

— Sta avendo una ricaduta — spiegò Colin, infilando la torcia nel cavo del braccio della statua in modo da poter aiutare Dunworthy a sedersi. — Non ha prestato attenzione ai miei cartelli.

— Si tratta di un virus — precisò Dunworthy, sedendosi con la schiena appoggiata alla statua. — Non è la peste. Entrambi ci siamo fatti praticare iniezioni di streptomicina e di gammaglobuline. Non possiamo prendere la peste. È un virus — ripeté, abbandonando la testa all'indietro contro la statua. — Starò subito bene, mi basta qualche momento di riposo.

— Gli ho detto che non doveva suonare la campana — dichiarò Colin, svuotando il sacco di tela sul pavimento di pietra e avvolgendolo intorno alle spalle di Dunworthy.

— Ci sono ancora delle aspirine? — chiese questi.

— Può prenderle soltanto ogni tre ore — gli ricordò Colin, — e non dovrebbe prenderle senz'acqua.

— Allora portami dell'acqua — scattò lui.

Colin guardò Kivrin per cercare sostegno ma lei era ancora in piedi dall'altro lato del corpo di Roche, intenta a fissare Dunworthy con espressione guardinga.

— Subito — ingiunse Dunworthy, e Colin corse fuori, con gli stivali che echeggiavano sul pavimento di pietra.

Dunworthy spostò quindi lo sguardo su Kivrin, che indietreggiò di un passo.

— Non si tratta della peste, ma di un virus — insistette. — Temevamo che tu fossi stata esposta ad esso prima di venire qui. Lo sei stata?

— Sì — replicò la ragazza, inginocchiandosi di nuovo accanto a Roche. — Lui mi ha salvato la vita.

Nel parlare lisciò con le mani la coperta purpurea e Dunworthy si rese conto che si trattava di un mantello di velluto, con una larga croce di seta bianca cucita al centro.

— Mi ha detto di non avere paura — mormorò Kivrin, tirando su il mantello a coprire il petto del morto, sotto le mani incrociate.

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