— Aspetta — cominciò Dunworthy, ma il ragazzo stava già correndo verso gli alberi, seguito dallo stallone.
— È un c… — iniziò, troncando bruscamente la frase a mezzo, e Dunworthy si mise a correre per raggiungerlo, serrandosi un braccio intorno al fianco dolorante.
Si trattava di un corpo, quello di un uomo giovane che giaceva disteso a faccia in giù nella neve in mezzo ad una pozzanghera congelata di liquido nero, con il volto coperto da una spolverata di neve… i suoi bubboni dovevano essere scoppiati. Dunworthy si girò verso Colin, ma il ragazzo non stava guardando il cadavere bensì la radura al di là di esso.
Era più grande di quella davanti alla casa del castaldo, lungo i suoi contorni sorgevano una mezza dozzina di capanne e all'estemità opposta c'era una chiesa in stile normanno. E nel centro, sulla neve calpestata, c'erano i cadaveri.
Non era stato fatto nessun tentativo di seppellirli, anche se vicino alla chiesa c'era una fossa poco profonda accanto alla quale si vedeva un mucchio di terra coperta di neve. Pareva che alcuni di quei corpi fossero stati trascinati fino al cortile della chiesa, perché si vedevano sulla neve lunghe strisce simili ai segni lasciati da una slitta… e almeno uno aveva strisciato fino alla porta della propria capanna e giaceva ora metà dentro e metà fuori della soglia.
— Temete Dio — mormorò Dunworthy, — perché l'ora del Suo giudizio è giunta.
— Sembra che qui ci sia stata una battaglia — commentò Colin.
— C'è stata — ribatté Dunworthy.
— Pensa che siano tutti morti? — domandò il ragazzo, avvicinandosi per sbirciare uno dei corpi.
— Non li toccare — ingiunse Dunworthy. — Non ti accostare neppure.
— Ho fatto le iniezioni di gammaglobuline — protestò il ragazzo, ma indietreggiò dal cadavere, deglutendo a fatica.
— Trai respiri profondi — consigliò Dunworthy, posandogli una mano sulla spalla, — e guarda da un'altra parte.
— Nel libro c'era scritto che era stato così — commentò il ragazzo, fissando con determinazione una quercia. — A dire il vero, temevo che fosse molto peggio… voglio dire, non c'è puzza o cose del genere.
— Sì.
— Adesso sto bene — annunciò Colin, deglutendo ancora e guardandosi intorno nella radura. — Dove pensa che possa essere Kivrin?
Non qui , pregò Dunworthy, dentro di sé.
— Potrebbe essere nella chiesa — suggerì, incamminandosi di nuovo insieme allo stallone, — e comunque dobbiamo vedere se c'è la tomba. Questo potrebbe non essere il villaggio giusto.
Il cavallo avanzò di un paio di passi, poi alzò la testa e appiattì gli orecchi all'indietro, emettendo un nitrito spaventato.
— Va' a portarlo nella baracca — ordinò Dunworthy, tenendo saldamente le redini. — Sente l'odore del sangue ed è spaventato. Legalo.
Mentre parlava allontanò lo stallone dal cadavere e porse le redini a Colin, che le prese con aria preocucpata.
— Va tutto bene — disse al cavallo, dirigendosi verso la casa del castaldo. — So esattamente come ti senti.
Dunworthy si incamminò con passo rapido attraverso la radura e verso il cortile della chiesa. C'erano quattro corpi in fosse poco profonde e accanto ad esse ce n'erano altre due già coperte e ammantate di neve… i primi che erano morti, quando ancora esistevano cose come i funerali, si disse nell'aggirare le tombe per arrivare davanti alla chiesa.
Sulla soglia c'erano altri due corpi, che giacevano uno sull'altro in posizione prona. Quello in cima era il cadavere di un vecchio, mentre quello sottostante apparteneva ad una donna… poteva vedere i lembi del suo rozzo mantello e una delle sue mani. Le braccia del vecchio erano protese sulla testa e sulle spalle della donna.
Dunworthy sollevò con cautela un braccio dell'uomo e il suo corpo scivolò leggermente di lato, tirando con sé il mantello. L'abito sottostante era sporco e chiazzato di sangue, ma si vedeva ancora che era stato di un azzurro acceso. Tirando indietro il cappuccio del mantello, Dunworthy scoprì che c'era una corda intorno al collo della donna, i cui lunghi capelli biondi erano impigliati nelle rozze fibre intrecciate.
L'hanno impiccata , pensò, senza avvertire la minima sorpresa.
— Ho scoperto cosa sono questi segni sul terreno — annunciò Colin, arrivando di corsa. — Hanno trascinato i corpi fin qui. Dietro il granaio c'è un ragazzo con una corda intorno al collo.
Dunworthy fissò la corda e il groviglio dei capelli, così sporchi che non erano quasi più biondi.
— Hai messo lo stallone nella baracca?
— Sì. L'ho legato ad una trave, perché mi voleva venire dietro.
— Ha fame — disse Dunworthy. — Torna nella baracca e dagli un po' di fieno.
— È successo qualcosa? — chiese Colin. — Non starà avendo una ricaduta, vero?
Dunworthy giudicò che da dove si trovava Colin non potesse vedere il vestito.
— No — replicò. — Nella baracca dovrebbe esserci un po' di fieno, o dell'avena. Va' a nutrire lo stallone.
— D'accordo — assentì Colin, sulla difensiva, e si mise a correre verso la baracca, ma a metà della piazza si fermò e gridò: — Non gli devo dare il fieno con le mani, vero? Posso posarlo per terra davanti a lui.
— Sì — rispose Dunworthy, fissando la mano della ragazza. Anche su di essa c'era del sangue, come pure sull'interno del polso, e il braccio era piegato come se avesse cercato di frenare una caduta. Poteva prenderla per il gomito e girarla sulla schiena con facilità. Bastava prenderla per il gomito.
Sollevò la mano, che era rigida e fredda, e sotto la sporcizia appariva arrossata e screpolata, con la pelle spaccata dal freddo in dozzine di punti. Non poteva essere Kivrin… e se davvero era lei, cosa doveva aver passato in quelle due settimane per ridursi in un simile stato?
Avrebbe trovato tutto nel registratore. Girò con delicatezza la mano alla ricerca della cicatrice che indicava la presenza dell'impianto sottocutaneo, ma il polso era troppo impastato di sporcizia perché potesse vederla, se davvero era lì.
E se c'era che avrebbe fatto? Avrebbe chiamato Colin e lo avrebbe mandato a prendere un'ascia nella cucina del castaldo per tagliare quella mano ormai morta in modo da poter poi ascoltare la voce di Kivrin che gli narrava gli orrori che le erano successi? Naturalmente non poteva farlo, non più di quanto potesse girare il corpo per appurare una volta per tutte se quella era Kivrin.
Riadagiò con gentilezza la mano accanto al corpo e afferrò il gomito, girando il cadavere.
La donna era morta della forma bubbonica… c'era una chiazza di un giallo sporco lungo il lato del vestito azzurro, là dove il bubbone sotto il braccio si era rotto e aveva suppurato. La lingua era nera e così gonfia da riempire tutta la bocca come un orribile oggetto osceno infilato fra i denti per soffocarla, e i lineamenti pallidi erano gonfi e distorti.
Non era Kivrin. Dunworthy cercò di rialzarsi, barcollando un poco, e quando era ormai troppo tardi pensò che avrebbe dovuto coprire il volto della donna morta.
— Signor Dunworthy! — chiamò Colin, arrivando a precipizio, e lui sollevò lo guardo a fissarlo con espressione vacua e impotente.
— Cosa è successo? — domandò il ragazzo. — L'ha trovata?
— No — rispose Dunworthy, bloccandogli il passo. — Non la troveremo.
Colin stava guardando oltre la sua spalla e verso la donna, la cui faccia spiccava azzurrognola sullo sfondo della neve candida e del vestito azzurro.
— L'ha trovata, vero? È lei?
— No — ripeté Dunworthy… ma avrebbe potuto esserlo. Avrebbe potuto. E lui non se la sentiva di girare altri corpi pensando che si potesse trattare del suo. Le ginocchia gli tremavano come se potessero smettere di reggerlo da un momento all'altro. — Aiutami a tornare alla baracca — disse.
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