«Non lo so,» rispose Igan.
«Non abbiamo più tempo,» disse il nuovo venuto. «Potter ha terminato il suo lavoro.»
«Con quale risultato?» chiese Igan.
«Lui dice che l’operazione ha avuto successo. Ha usato un’iniezione di enzimi per accelerare il ristabilimento della madre. Tra poco sarà in grado di spostarsi.» Con una mano massiccia l’uomo indicò dietro la spalla, verso Svengaard. «Che ne facciamo di lui?»
«Lo porti con sé,» disse Igan. «Cosa sta facendo la Centrale?»
«Ha ordinato l’arresto di tutti i bioingegneri.»
«Così presto? Hanno preso anche il Dottor Hand?»
«Sì, ma lui ha scelto la porta nera.»
«Ha costretto il suo cuore a fermarsi,» commentò Igan. «Era l’unico modo. Non possiamo permetterci che uno di noi venga interrogato. In quanti siamo rimasti?»
«Sette.»
«Compreso Svengaard?»
«Con lui siete in otto.»
«Per il momento terremo Svengaard sotto sorveglianza,» disse Igan.
«Stanno iniziando a far evacuare il loro personale da Seatac,» annunciò l’uomo.
Svengaard riusciva a vedere soltanto una metà del viso di Igan, coperto parzialmente dal nuovo venuto, ma quella metà mostrava chiaramente un’espressione preoccupata, riflessiva. L’unico occhio visibile fissò Svengaard per un istante, poi guardò altrove.
«È chiaro,» disse Igan.
«Sì, stanno per distruggere la megalopoli.»
«No… loro direbbero "sterilizzare".»
«Ha mai sentito Allgood parlare della Gente?»
«Molte volte. Feccia della terra. Distruggerebbe l’intera regione senza battere ciglio. È tutto pronto per muoverci?»
«Più o meno.»
«L’autista?»
«È stato programmato per il percorso desiderato.»
«Faccia un’iniezione a Svengaard per tenerlo tranquillo. In viaggio non avremo tempo di occuparci di lui.»
Svengaard si irrigidì.
L’uomo si girò. Svengaard sollevò lo sguardo, fissando due occhi scintillanti, grigi, calcolatori, privi di qualsiasi emozione. Una delle mani massicce dell’uomo si sollevò, stringendo una siringa a pressione. La mano gli toccò il collo. Svengaard sussultò.
Poi fissò quel volto privo di espressione mentre la sua mente veniva avvolta da soffici nuvole. Si sentiva la gola arida, era incapace di parlare. Volle protestare, ma nessuna parola gli uscì di bocca. La sua coscienza divenne un globo sempre più piccolo concentrato su di una piccola parte del soffitto dotato di feritoie. La scena si condensò, divenne sempre più piccola, fino a trasformarsi in un occhio dalle pupille simili a feritoie che ruotava freneticamente.
Poi Svengaard precipitò in una morbida oscurità.
Lizbeth giaceva su di una panca, con Henry seduto accanto a lei che la sorreggeva. In uno spazio ristretto, una specie di cubo non molto più grande di uno scatolone da imballaggio, erano in cinque. Il vano era stato ricavato al centro del carico normale di un hovercraft da trasporto. Un solo neon, in alto, lo illuminava di una luce fievole, malata. Lizbeth vedeva Igan e Boumour seduti sulla panca di fronte, con le gambe allungate sulla figura di Svengaard, che, legato, imbavagliato e privo di sensi giaceva sul pavimento.
Harvey aveva detto che fuori era già calata la sera. Lizbeth pensò che questo significava che dovevano aver percorso un buon tratto di strada. Provava un leggero senso di nausea e l’addome le faceva male, laddove le erano stati applicati i punti. Ma il pensiero di portare dentro di sé suo figlio la dava uno strano senso di sicurezza. Inoltre provava una calda sensazione di soddisfazione. Potter le aveva assicurato che, mentre custodiva dentro di sé l’embrione, avrebbe potuto tranquillamente fare a meno di assumere enzimi. Ovviamente il medico doveva aver pensato che, una volta giunti in un luogo sicuro, l’embrione sarebbe stato rimosso dal suo corpo e rimesso in una vasca. Ma lei si sarebbe opposta. Voleva portare a termine la gravidanza. Nessuna donna l’aveva fatto per migliaia di anni, ma lei voleva farlo.
«Stiamo accelerando,» commentò Igan. «Ormai dobbiamo essere usciti dai tubi.»
«Ci saranno dei posti di blocco?» chiese Boumour.
«Senza dubbio.»
Harvey si rese conto della veridicità dell’affermazione di Igan. La velocità era aumentata? Sì… i loro corpi stavano compensando la maggiore pressione che subivano nelle curve. Il ventilatore sotto la panca di Lizbeth inviava un flusso d’aria più fresca. Il veicolo procedeva più spedito, senza più sobbalzi. Il rombo delle turbine riecheggiava fortemente nel piccolo vano, e lui percepiva nell’atmosfera l’odore di idrocarburi incombusti.
I posti di blocco? La Sicurezza avrebbe usato ogni mezzo per evitare che qualcuno riuscisse a fuggire da Seatac. Si chiese cosa sarebbe accaduto alla megalopoli. I bioingegneri avevano parlato di gas mortali liberati nell’atmosfera, di raggi sonici. Avevano affermato che la Centrale era in possesso di numerose armi. Harvey allungò un braccio per sostenere Lizbeth mentre il veicolo svoltava bruscamente.
Non sarebbe stato capace di dare un nome alla sensazione che provava sapendo che Lizbeth portava in grembo il loro figlio. Era una sensazione strana, certo non si trattava di disgusto od orrore… ma era strana. In lui si era risvegliato un riflesso istintivo, e dunque era costantemente all’erta nei confronti di eventuali pericoli che avrebbero potuto minacciare la moglie. Ma per quel momento c’era solo il vano, che odorava di sudore stantio e olio.
«Cosa c’è nel carico che ci circonda?» chiese Boumour.
«Un po’ di tutto,» rispose Igan. «Parti di macchinari, vecchie opere d’arte, oggetti sparsi. Abbiamo preso tutto quello su cui potevamo mettere le mani per farlo sembrare un carico assolutamente normale.»
Oggetti sparsi , pensò Harvey. Fu affascinato da quella definizione illuminante. Oggetti sparsi. Stavano trasportando pezzi di macchinari che forse non sarebbero mai stati costruiti.
Lizbeth allungò la mano a tentoni, strinse quella del marito. «Harvey?»
Premuroso, lui si chinò verso la moglie. «Sì, cara?»
«Mi sento… così… strana.»
Harvey lanciò uno sguardo disperato ai due dottori.
«Sua moglie starà benone,» lo tranquillizzò Igan.
«Harvey, ho paura,» disse Lizbeth. «Non ce la faremo.»
«Non è questo il modo di parlare,» la rimproverò Igan.
Lizbeth sollevò lo sguardo, si accorse che il bioingegnere la stava studiando dall’altro lato dello stretto vano. In quel viso severo, i suoi occhi brillavano come due strumenti chirurgici. Anche lui è un Cyborg? si chiese Lizbeth. Lo sguardo gelido di quegli occhi infranse il suo autocontrollo.
«Non mi importa nulla della mia vita!» sibilò. «Ma cosa ne sarà di mio figlio?»
«Farebbe meglio a calmarsi, signora,» la avvertì Igan.
«Non posso,» ribatté lei. «Non al pensiero che non abbiamo scampo.»
«Non dovrebbe preoccuparsi tanto,» tentò di rassicurarla Igan. «Il nostro autista è il miglior Cyborg disponibile.»
«Non riuscirà mai a farci sfuggire alle loro grinfie,» gemé lei.
«Farebbe meglio a star zitta,» disse Igan.
Harvey aveva ormai trovato un oggetto da cui proteggere la moglie. «Non le parli in quel modo!» esclamò.
Igan replicò in tono di sopportazione. «Non ci si metta anche lei, Durant. E abbassi la voce. Sa bene quanto me che durante il tragitto potremmo trovare blocchi stradali dotati di dispositivi di ascolto. In effetti, dovremmo parlare solo quando è strettamente necessario.»
«Stanotte niente riuscirà a sfuggire alle maglie della loro rete,» bisbigliò Lizbeth.
«Il nostro autista è poco più di un guscio di carne intorno ad un potentissimo computer,» li informò Igan. «È stato programmato esclusivamente per svolgere questo compito. Se non ci riesce lui, nessuno sarebbe in grado di farci passare.»
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