«Certo che abbiamo delle armi!» gridò Nourse. «Ma perché dobbiamo…»
«Nourse, controllati,» lo esortò Calapine.
Nourse si rilassò sul suo trono, con le mani che ne stringevano spasmodicamente i braccioli. « Controllarmi !»
«Esaminiamo i nuovi sviluppi della situazione,» continuò Schruille. «Sappiamo che i Cyborg esistono. Fino a questo momento, hanno eluso il nostro controllo. Evidentemente hanno la possibilità di entrare nei nostri computer e di manipolare i dati che ci forniscono, inoltre godono dell’appoggio di membri della Gente. E poi abbiamo scoperto che posseggono un braccio armato capace di sacrificare… ho detto sacrificare un membro per il bene degli altri.»
Nourse lo fissò ad occhi spalancati, mentre rifletteva su quelle parole.
«E noi abbiamo dimenticato completamente come si fa ad essere brutali.»
«Puah!» esclamò Nourse.
«Se si ferisce un uomo con un’arma,» rifletté Schruille, «di chi è la responsabilità: dell’arma o di chi la impugna?»
«Spiegati meglio,» sussurrò Calapine.
Schruille indicò l’immagine di Allgood. «Ecco la nostra arma. L’abbiamo puntata innumerevoli volte, finché non ha imparato a puntarsi da sola. Non abbiamo solo dimenticato come essere brutali, abbiamo semplicemente dimenticato di essere brutali.»
«Che sconcezza!» protestò Nourse.
«Guardate,» li esortò Schruille. Indicò i sensori video, tutti attivati. «Ecco la prova che quel che dico è vero. In quale altra occasione tanti nostri pari hanno osservato il Globo?»
Alcune luci si spensero, ma si riaccesero non appena i canali vennero utilizzati da altri che desideravano osservare.
Allgood, che stava assistendo a quella scena dallo schermo, era completamente affascinato. Aveva il respiro mozzo per l’emozione, ma ignorò quel particolare. Gli Optimati che affrontavano apertamente il concetto di violenza! Dopo una vita trascorsa a baloccarsi con degli eufemismi, Allgood scoprì che quel pensiero era inaccettabile. Era successo tutto così in fretta. Ma quelli erano gli Immortali, coloro che non potevano mai sbagliare. Si chiese quali pensieri solcassero in quel momento le loro menti.
Schruille, di solito silenzioso e meditativo, fissò Allgood e disse: «Chi altro ha eluso la nostra sorveglianza, Max?»
Allgood scoprì di non riuscire a parlare.
«I Durant sono scomparsi,» disse Schruille. «Svengaard non è stato trovato. Chi altro?»
«Nessuno, Schruille, nessuno.»
«Vogliamo che siano catturati,» gli disse l’Optimate.
«Naturalmente, Schruille.»
«Vivi,» intervenne Calapine.
«Vivi, Calapine?» ripeté Allgood.
«Se è possibile,» disse Schruille.
Allgood annuì. «Obbedisco, Schruille.»
«Adesso puoi tornare al tuo lavoro,» lo congedò quest’ultimo.
Lo schermo divenne nero.
Schruille iniziò a sfiorare i controlli inseriti nel bracciolo del suo trono.
«Cosa stai facendo?» gli chiese Nourse, notando un tono petulante nella propria voce che non gli piacque per nulla.
«Elimino i programmi di filtraggio che escludono la violenza dai nostri occhi, se non come dato astratto,» spiegò Schruille. «È giunta l’ora che osserviamo come sono veramente le terre su cui dominiamo.»
Nourse sospirò. «Se lo reputi davvero necessario.»
«Io so che è necessario.»
«Interessantissimo,» commentò Calapine.
Nourse la guardò. «Cosa ci trovi di tanto interessante in quest’oscenità?»
«L’esaltazione che provo,» rispose la donna. «È questa la cosa più interessante.»
Nourse fece ruotare il trono, voltandole le spalle, poi fissò irato Schruille. Ora era assolutamente sicuro che l’altro aveva un’imperfezione della pelle sul volto — proprio vicino al naso.
Per Svengaard, cresciuto in un mondo totalmente dominato dagli Optimati, l’idea che non fossero infallibili costituiva una vera e propria eresia. Tentò di escluderla dalle proprie orecchie e dalla propria mente. Non essere infallibili significava essere soggetti alla morte. Ma questo capitava solo alle classi inferiori, non agli Optimati. Come potevano non essere infallibili?
Conosceva il bioingegnere che sedeva di fronte a lui, nella pallida luce dell’alba che filtrava attraverso strette fessure nel soffitto a cupola. Quell’uomo era Toure Igan, uno dei medici d’élite della Centrale, a cui venivano sottoposti soltanto i problemi di bioingegneria più delicati e complessi.
La stanza che occupavano era un piccolo spazio ricavato tra le pareti di un condotto d’aria che serviva i sotterranei del Complesso delle Cascate. Svengaard sedeva in una poltrona piuttosto confortevole, ma aveva le braccia e le gambe legate. Passava altra gente, superando il tavolo a cui sedeva Igan. Portavano pacchi dall’aria strana, e nella maggior parte dei casi ignoravano sia Igan sia il suo compagno.
Svengaard studiò i lineamenti scuri e intensi di Igan. Le rughe sul viso dell’uomo tradivano l’inizio dello squilibrio enzimico. Stava iniziando a invecchiare. Ma gli occhi avevano ancora il colore azzurro del cielo estivo, erano ancora giovani.
«Lei deve scegliere da che parte stare,» gli aveva appena detto Igan.
Svengaard permise alla sua attenzione di vagare. Passò un uomo che portava un palla metallica dorata. Da una delle tasche spuntava una corta catenella d’argento da cui pendeva un feticcio della fertilità a forma di lingam.
«Lei deve rispondermi,» lo esortò Igan.
La gente continuava a passare per la piccola stanza. Il fatto che tutti indossassero la stessa uniforme iniziò a innervosire Svengaard. Chi era questa gente? Che facessero parte dell’Associazione Clandestina dei Genitori, questo era ovvio. Ma chi erano?
Una donna lo sfiorò. Svengaard alzò lo sguardo su un sorriso abbagliante scoccato da un volto nero, riconobbe una Zeek, il viso molto simile a quello di Potter ma dalla tinta ancora più scura… un errore nel genotipo. Al polso destro la donna portava un braccialetto di capelli umani biondi. Svengaard continuò a fissare il braccialetto finché la donna non girò un angolo, scomparendo alla vista.
«Ormai è guerra aperta,» disse Igan. «Lei deve credermi. La sua vita dipende da questo.»
La mia vita? si chiese Svengaard. Tentò di pensare alla propria vita, di individuarne le peculiarità. Aveva una moglie terziaria, poco più di una Compagna, una donna come lui a cui non era stato mai concesso il permesso di generare. Per un istante, non riuscì a ricordare i lineamenti del volto della moglie: nella sua memoria si confondevano con quelli di mogli e Compagne che aveva avuto in precedenza.
Lei non è la mia vita , si rese conto. Ma allora chi è la mia vita?
Era cosciente di essere stanchissimo, e di soffrire dei postumi dei narcotici che i suoi catturatori gli avevano somministrato durante la notte. Ricordava le mani che l’avevano afferrato, lo sguardo sbalordito che aveva dato alla parete che non poteva essere una porta e che invece lo era, lo spazio illuminato alle spalle di essa. E ricordava di essersi risvegliato in quel luogo, mentre Igan gli sedeva di fronte.
«Non le ho nascosto niente,» continuò Igan. «Le ho detto tutto. Potter è riuscito a malapena a salvare la vita. Per quanto riguarda lei, è già stato diramato l’ordine di arrestarla. L’infermiera addetta al computer è morta. Molte persone sono morte. E ne moriranno ancora. Devono essere sicuri, non capisce? Non possono lasciare nulla al caso.»
Cos’è la mia vita? si chiese Svengaard. E pensò al suo confortevole alloggio, agli oggetti d’arte e ai video d’intrattenimento, alle opere scientifiche di consultazione, agli amici, alla vita piatta e sicura che la sua posizione gli permetteva di condurre.
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