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Robert Wilson: Memorie di domani

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Robert Wilson Memorie di domani

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Per cercare una via di scampo a un tragico passato, Raymond Keller acconsente a diventare un Occhio, ovvero un volontario che accetta di farsi impiantare nel cervello un perfetto impianto di registrazione. In tal caso non potrà più guardare dove vorrà, ma solo dove è necessario per vedere, registrare, documentare. E così dimentica il proprio passato, il presente, il futuro. Finché incontra Teresa, la meravigliosa ragazza che è anche una splendida artista. Una donna preda delle violente allucinazioni indotte dai gioielli sognanti seminati in epoche remote da una razza di extraterrestri, e che hanno proprietà ancora non completamente esplorate dalla razza umana. Occorre qualcuno che abbia rinunciato a sé per poter penetrare un segreto tra i meglio custoditi dell’universo.

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Naturalmente, dal punto di vista sociale, erano isolati. Ma era loro risparmiata l’angoscia dell’attesa: agli Angeli Registranti, per decisione del Corpo Medico, veniva data la precedenza assoluta in tutte le cure mediche.

Se morivano, i loro corpi dovevano essere recuperati.

In tutte queste regole e consuetudini, l’individualità dell’Angelo non veniva tenuta nella minima considerazione. Ciò che importava era il suo impianto neurologico, la sua memoria AV, la sua decodificazione… ma era normale, pensò Keller. Si trattava dell’Esercito.

L’ospedale di Santarem era un’unità molto libera. Le infermiere erano civili e i medici volontari. Era alloggiato in una sede di fortuna, un caseggiato dimesso, a un solo piano, ermeticamente chiuso per contrastare il traffico degli insetti. Keller fu sistemato in un reparto insieme a venti sconosciuti, accomunati dalla paura per l’intervento imminente. Tutti leggevano libri americani in edizione economica o guardavano i fumetti pornografici portoghesi che il martedì arrivavano a pacchi da San Paolo. Ascoltavano il ronzio degli aerei per il trasporto truppe e il sibilo dei condizionatori d’aria. Giocavano a carte. Uno dopo l’altro venivano portati via con la lettiga, e tornavano indietro a impianto effettuato.

Keller sapeva che l’intervento era pericoloso. Tutti lo sapevano. Nell’esercito si effettuavano decine di impianti al giorno, eppure continuavano ad essere pericolosi. Non c’era da stupirsene, visto che si trattava di mettere sottosopra il cervello. Il cervello era una cosa delicata, pensava Keller. Fragilissima. A invaderla con tutti quei fili c’era il rischio di rompere qualcosa. Prima di offrirsi volontario per diventare un Angelo, Keller aveva rubato un testo medico e lo aveva letto con attenzione. In teoria, la cosa era semplice. I fili in tessuto biosintetico vivente, erano studiati apposta per crescere all’interno del cervello senza danneggiarlo. Il tropismo indotto li portava a dirigersi verso la zona visiva del soggetto. Un processo automatico. Ma il libro riportava anche la sintomatologia relativa al fallimento dell’impianto, un elenco lungo e scoraggiante. Perdita parziale o totale del campo visivo, disfasia, afasia, disorientamento, perdita della memoria, indebolimento degli arti, appiattimento o disturbo delle reazioni emotive. Keller sentiva le mani sudate al solo pensarci. Ma era stato giudicato idoneo al lavoro e lui, senza esservi costretto, si era offerto volontario.

— Sarà dura — lo avevano avvertito i medici. — Togliti dalla testa che sia uno scherzo. Se sei un Angelo, c’è un atteggiamento che devi coltivare con perseveranza: il wu-nien. Sai che cosa significa, soldato Keller? Significa che tu sei una macchina. Non pensi, guardi e basta. Non guardi dove vuoi, ma solo dove è importante guardare. Tu sei una cinepresa, capisci? Non devi compiere un lavoro. Tu sei il lavoro.

Keller comprese perfettamente. Byron gli aveva già insegnato un po’ di Zen degli Angeli. Vedere senza desiderio. Lo specchio perfetto.

— Non sarai più Raymond Keller. Dovrai imparare a lasciarti tutto dietro alle spalle, ciò che vuoi e ciò che ti importa. Sei un paio di occhi e un paio di orecchie. Nient’altro.

A lui era sembrata una situazione accettabile.

Quella notte, per la prima volta dopo un mese, aveva dormito un sonno senza sogni. La mattina dopo lo avevano portato in sala operatoria.

Di ritorno nell’appartamento, Keller si preparò un pasto leggero. Doveva perdere qualche chilo, in modo da disfarsi di Grossman come di una seconda pelle. Quando ebbe mangiato radunò il contenuto del frigorifero e della credenza, lo stipò in due grosse borse per la spesa, chiuse le borse e le portò giù nell’inceneritore comune del palazzo. Le borse scomparvero nello scivolo metallico, in un lampo di luce attinica.

Addio, Grossman.

Pensò di bruciare le tessere, ma decise di rimandare. Prima avrebbe chiamato Lee Anne.

Lee Anne gli era stata fornita da una sexy-agenzia. Comperare il sesso a credito era stata una novità, per lui. Ma sembrava il genere di cose che Grossman avrebbe potuto fare. Aveva affittato Lee Anne con un contratto a breve termine, che poi aveva prolungato.

Lei comparve sul monitor del telefono, perfettamente in ordine, come sempre. Era un mistero come riuscisse a mantenere quella perfezione costante anche nel caso di una telefonata improvvisa, forse si trattava di una miglioria tecnica. Era bella, in maniera rigorosamente contemporanea, con gli zigomi eliminati, il viso a cuore, gli occhi azzurri incorniciati da luminosi raggi di mascara color arancio. Sorrideva, contenta di vederlo. O magari era solo un sorriso professionale.

— Parto — annunciò Keller, sentendosi già a disagio nella parte di Grossman, che recitava per l’ultima volta.

— Per quanto tempo?

— Molto — rispose lui. — Devo rompere il contratto.

Lei rimase in silenzio per una frazione di secondo. — Avresti dovuto dirmelo.

— Mi dispiace. Non ne ho avuto il tempo.

— Bene. — Lei si strinse nelle spalle e sorrise. — Mi sarebbe piaciuto continuare. È stato un bel periodo. Il migliore.

Era una bugia, ma recitata così bene che Keller avvertì una fitta di rimpianto. Tra loro non c’era stato niente, a parte ciò che era previsto dal contratto, ma per un terribile momento Keller rischiò di essere sopraffatto dal desiderio di confessarsi, di tradire l’impegno preso con Vasquez, di dirle com’era stata insopportabile la sua solitudine negli ultimi dieci anni. Peggio, avrebbe voluto trapassare lo schermo con un pugno, per cercare in qualche modo di toccarla attraverso quel groviglio microscopico di fili e fibre ottiche.

Il pensiero lo sconvolse. Keller si impose di sorridere, registrò le sue scuse e salutò, con i pugni stretti contro i fianchi.

Wu-nien , pensò Keller mentre bruciava l’ultima tessera.

La preparazione al compito di Angelo aveva compreso un’infarinatura della dottrina Zen. Altruismo, coraggio, lucidità. Il sergente che gli aveva fatto da maestro era stato un Roshi della scuola Rinzai. Gli aveva parlato dei Tre Pilastri: grande fede, grandi dubbi, grande perseveranza. Condizionavano la mente, ed erano tassativi. I seguaci della disciplina credevano, e lo credeva anche Keller, che i satori si nascondessero davvero, come illuminazioni misteriose, nei laghi a corna di bue e nelle verdi isole dell’Amazzonia abitate dagli aironi.

Wu-nien. Era un Angelo. Era di nuovo Keller. Era l’obiettività portata all’estremo, come tutti si erano sforzati di raggiungere. Wu-nien , wu-hsin , non-pensiero, non-mente; solo visione, privata di qualunque giudizio, visione senza desiderio. Lo specchio perfetto.

Era come un luogo, pensò Keller. Un luogo senza amore, né solitudine, né paura. Un luogo tranquillo e luminoso, in cui l’unica memoria era la memoria AV, limpida e mutevole.

Lui lo chiamava il Palazzo del Ghiaccio.

Vi aveva fatto ritorno ancora una volta.

2

Dal balcone della sua balsa , la zattera ormeggiata nel cuore del groviglio di abitazioni e industrie galleggianti cresciuto nella parte di costa a est di Santa Barbara, Teresa Rafael guardò una vecchia che si avvicinava su un ponte mobile. Mise da parte la matita e pensò: una cliente.

Spense la matita elettrica e ne ascoltò l’impercettibile ronzio dissolversi nel nulla. Era un’artista. Una decina di anni prima aveva cominciato a vendere le sue sculture alle gallerie sull’Autostrada numero Uno. Erano fatte con materiale di scarto, vecchi pignoni a gabbia saldati con ossiacetilene ad antichi alberi a camme, tavole patchwork fissate con i chiodi su fogli di alluminio. Poi, dopo che Byron Ostler le aveva fatto conoscere le pietre dei sogni, aveva cominciato a lavorare con materiali più agevoli. Al momento stava eseguendo una pittura su cristallo, una lastra trasparente spessa circa due centimetri. Creava ombre e forma nella sua struttura laminare con una matita a interferenza fabbricata in casa. Il quadro, un paesaggio, era ormai finito. Campi verdi si stendevano a perdita d’occhio fino all’orizzonte. Il cielo era di un azzurro gessoso, e dalle sue profondità scendeva un gruppo di uomini con ali simili a ragnatele, leggermente più azzurre del cielo, che si dirigevano a una pagoda di legno sul bordo di un canale di irrigazione.

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