Robert Silverberg - Il sogno del tecnarca

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Il Tecnarca McKenzie ha fretta, perché vuol gli uomini sparsi per tutto l’Universo durante il periodo del suo governo. Per questo lo irritano tanto le notizie portate dall’equipaggio dell’astronave che ha compiuto felicemente un viaggio di prova sperimentando la nuova propulsione. Gli uomini non sono i soli esseri intelligenti. Gli astronauti hanno notato tracce di attività su uno dei pianeti scelti da Tecnarca per la colonizzazione terrestre. Un’altra civiltà vi sta installando una sua colonia. Il Tecnarca McKenzie ha fretta di definire la questione, perciò bisogna mettersi in contatto con gli altri, far loro capire chi sono i terrestri, ed accordarsi perché le sfere di influenza delle due civiltà non vengano mai a conflitto, e si dividano amichevolmente l’Universo. E l’astronave appena tornata dal difficile viaggio deve ripartire subito, con lo stesso equipaggio, che è stanco ma è l’unico di cui il Tecnarca si fidi. Con l’equipaggio viaggeranno i cinque uomini migliori della Terra, ognuno eccellente nel proprio campo, per negoziare con l’altra razza e concludere secondo i desideri del Tecnarca il quale, avendo già rinunciato a una parte del suo sogno, non intende rinunciare anche alla metà dell’universo che gli è rimasta. Ma le cose non vanno come stabilito, e il Tecnarca dovrà mettersi a segnare il passo insieme a tutta la razza umana, perché la spedizione terrestre fa una scoperta che costringerà McKenzie a rinunciare ai suoi sogni.

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«Ma questo è sempre chiedere, no?» disse Bernard.

Havig si strinse nelle spalle. «Ai Suoi occhi noi siamo tutti dei questuanti afflitti dal bisogno. Sarò lieto di pregare per tutti noi, come del resto ho fatto fin dal principio.»

«Bravo, pregate» disse Laurance, scorbutico. «Abbiamo bisogno di tutto l’aiuto possibile e immaginabile.»

Alcuni si sistemavano già sui cuscini, per passarvi la notte. Bernard arrivò fino all’estremità della stanza, si appoggiò alla parete e la osservò diventare trasparente per circa un metro quadrato, per fornirgli una finestra.

Scrutò fuori, verso l’alto. Le stelle sconosciute brillavano contro il cielo. Pensò con nostalgia alla Via Lattea, ma non sembrava visibile da quella parte del pianeta. Provando un improvviso senso di rigidità al pensiero dell’incommensurabile distanza che lo separava da casa, Bernard si staccò dalla finestra e si gettò sul primo cuscino che gli venne a tiro. Chiuse gli occhi. Le sue labbra presero a muoversi quasi automaticamente.

Un istante dopo ritrovò l’autocontrollo e con serena meraviglia pensò: Ho pregato! Incredibile! Ho pregato davvero per poter tornare a casa!

Quella preghiera era stata come un sollievo. Il nodo di tensione, che da ore era andato formandosi dentro di lui, si sciolse. Bernard posò la testa sulle braccia ripiegate, gettò via le scarpe e poco dopo s’immerse in un sonno profondo.

14

Bernard si svegliò tutto indolenzito e intorpidito. Si era addormentato come un piombo senza spogliarsi. Gli altri erano stesi qua e là, immersi nel sonno, e la stanza era ancora buia. Ma lui era ben sveglio. In punta di piedi arrivò alla parete, la toccò per renderla trasparente, e vide che il sole era già alto. Gettò un’occhiata all’orologio. Erano passate poco più di nove ore da quando era calata l’oscurità, ed ecco che il sole era sorto di nuovo. Sul pianeta di Rosgolla, quindi, la giornata era lunga diciotto o diciannove ore.

Uscendo dalla solita porta che si apriva cortesemente da sola, Bernard aspirò l’aria a pieni polmoni e provò un immediato senso di stupore e di benessere. L’aria era meravigliosamente dolce e fresca, come vino nuovo. Le colline lontane, dossi tondeggianti e levigati, sembravano lavate di fresco contro il cielo trasparente del mattino. Un argenteo lenzuolo di rugiada scintillava sui prati.

Per un attimo, Bernard quasi dimenticò dove si trovava e come c’era arrivato.

Aveva sognato Katha. Ora, da sveglio, il ricordo ancora presente del sogno lo meravigliava, e lo rendeva d’umore tristemente introspettivo. Ripensava raramente, e mai l’aveva sognata, alla ragazza snella, dagli occhi ridenti e dalla zazzera color rame, che era stata la sua seconda moglie. Eppure, quella notte l’aveva proprio sognata.

Pensava anche, del resto, di sapere il perché. L’interrogatorio dei Rosgollani aveva rimescolato antichi ricordi, e immagini da molto tempo sepolte sarebbero tornate a disturbargli i sonni finché non si fossero depositate di nuovo, come particelle sospese nell’acqua prima di ricadere sul fondo. Nel frattempo, lui ne avrebbe sofferto. Aveva creduto di essere venuto a un accordo con se stesso riguardo a Katha, eppure il sogno l’aveva turbato come mai avrebbe creduto possibile.

«Buongiorno» disse qualcuno dietro di lui, strappandolo alle sue fantasticherie.

Bernard si voltò. «Buon giorno» rispose a Dominici. «Mi avete fatto sobbalzare.»

«Siete alzato da molto?»

«No, non da molto. Dieci minuti, forse.»

«E avete dormito bene?» volle sapere Dominici.

«Così così.» Bernard s’inginocchiò e fece scorrere la mano sull’erba fresca.

«Ho fatto molti sogni.»

«Sogni? Strano, anch’io» disse Dominici, e rise piano. «Ho sognato d’essere in viaggio di nozze. Sono tornato indietro di quindici o diciotto anni. Eravamo tutti e due in motoscafo, e sfioravamo le onde. Io le tenevo un braccio attorno alla vita. I suoi capelli si gonfiavano nel vento. E io gettavo una lenza per pescare, e tiravo su un pesce grosso con tanti denti, e Jan aveva paura e mi supplicava di ributtarlo in acqua…» Dominici tacque.

«Un tempo mi svegliavo bagnato di sudore quando sognavo Jan. Stanotte no, invece. Forse comincio a dimenticarla. Rimase uccisa in una discontinuità del transmat» aggiunse, dopo una breve pausa.

«Oh, mi dispiace.» Bernard trasalì nel figurarsi l’immagine di una giovane donna sorridente, che diceva arrivederci ed entrava nel campo luminoso del transmat, per poi svanire per sempre nel vuoto a causa di un incidente che si verificava una volta ogni trilione di viaggi. Il transmat non era perfetto, eppure, era la prima volta che Bernard si trovava a parlare con qualcuno rimasto indirettamente coinvolto in un incidente di transmat.

«Se uno deve morire» disse Dominici «immagino che quella sia la morte migliore. Non si sente niente, nemmeno per una frazione di secondo. L’attimo prima sei vivo, l’istante dopo non ci sei più. Non ci furono neanche i funerali. Continuai a sperare che tornasse. Sapete come succede, resta sempre quella sensazione di dubbio. Ma i tecnici del transmat dissero di no; c’era stato un errore ben definito nelle coordinate e Jan si era disintegrata per sempre. Mi pagarono una grossa somma, come indennizzo. E volete sapere una cosa? Quando mi trovai tra le mani quell’assegno ebbi un collasso e piansi per la prima volta da quando era successo l’incidente. Solo quando mi diedero l’assegno credetti davvero alla sua scomparsa! Solo allora, capite?»

«Che cosa orribile» mormorò Bernard.

«Stavamo partendo per una vacanza» disse Dominici con voce piana. «Tutto era pronto, io ero là con le valigie in mano. Lei mi baciò, entrò nel…»

«Non continuate, è un ricordo che vi fa male.»

«Non importa» disse Dominici. «Ora il dolore si è un po’ affievolito. Dopo dieci anni… Vedete, non tremo più. Parlo di lei, eppure non ho più il tremito. È già qualcosa. Evidentemente sto superando il peggio, mi sto abituando all’idea, credo.»

Continuarono a conversare, mentre gli altri componenti del gruppo cominciavano a svegliarsi uno alla volta. Bernard a un tratto si rese conto di preferire Dominici a tutti gli altri compagni di viaggio. Havig, sebbene non fosse poi quel fanatico che Bernard s’era dipinto all’inizio, era troppo rigido e austero per poter diventare un amico intimo. Stone, nonostante tutte le sue sottigliezze di diplomatico, era un tipo troppo semplice e aperto per essere interessante. Dominici invece era di una complessità gradevole, con quel caratterino al vetriolo: scherniva irriverentemente Havig eppure, nei momenti di autentica emozione, si precipitava a biascicare preghiere in latino e a farsi il segno della croce.

Uno alla volta, intanto, gli altri uscirono all’aperto, per sgranchirsi le membra dopo te breve nottata. Stone fu il primo a raggiungerli, poi Nakamura con la sua aria allegra, poi Havig, che salutava brevemente con quel suo fare né cordiale né ostile, e infine Laurance, perso nella sua personale amarezza. Dopo Laurance uscirono Clive ed Hernandez, mentre il taciturno Peterszoon li seguiva a grandi passi, fissando con aria scontrosa il gruppo in generale, proprio come se ciascuno avesse la responsabilità diretta di quello che era successo.

«Che cosa sarà di noi?» chiese Clive. «Dobbiamo restare qui e aspettare, eh?»

«Forse ci porteranno da mangiare» disse Stone. «Ho una fame che non ci vedo. Nessun segno di colazione, per caso?»

«Per ora no» rispose Bernard. «Forse aspettavano che fossimo tutti svegli.»

«O forse ci lasceranno digiuni» disse Dominici. «Visto che siamo solo un mucchio di esserucoli inferiori, avranno deciso di…»

«Guardate là!» gridò all’improvviso Hernandez. «Che il diavolo mi porti! Guardate!»

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