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Robert Silverberg: Il sogno del tecnarca

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Robert Silverberg Il sogno del tecnarca

Il sogno del tecnarca: краткое содержание, описание и аннотация

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Il Tecnarca McKenzie ha fretta, perché vuol gli uomini sparsi per tutto l’Universo durante il periodo del suo governo. Per questo lo irritano tanto le notizie portate dall’equipaggio dell’astronave che ha compiuto felicemente un viaggio di prova sperimentando la nuova propulsione. Gli uomini non sono i soli esseri intelligenti. Gli astronauti hanno notato tracce di attività su uno dei pianeti scelti da Tecnarca per la colonizzazione terrestre. Un’altra civiltà vi sta installando una sua colonia. Il Tecnarca McKenzie ha fretta di definire la questione, perciò bisogna mettersi in contatto con gli altri, far loro capire chi sono i terrestri, ed accordarsi perché le sfere di influenza delle due civiltà non vengano mai a conflitto, e si dividano amichevolmente l’Universo. E l’astronave appena tornata dal difficile viaggio deve ripartire subito, con lo stesso equipaggio, che è stanco ma è l’unico di cui il Tecnarca si fidi. Con l’equipaggio viaggeranno i cinque uomini migliori della Terra, ognuno eccellente nel proprio campo, per negoziare con l’altra razza e concludere secondo i desideri del Tecnarca il quale, avendo già rinunciato a una parte del suo sogno, non intende rinunciare anche alla metà dell’universo che gli è rimasta. Ma le cose non vanno come stabilito, e il Tecnarca dovrà mettersi a segnare il passo insieme a tutta la razza umana, perché la spedizione terrestre fa una scoperta che costringerà McKenzie a rinunciare ai suoi sogni.

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«Ma soprattutto» disse Dominici, «come faremo ad andarcene di qua?»

«È impossibile» dichiarò calmo Bernard. «A meno che, s’intende, i Rosgollani non decidano di lasciarci andare. Direi che, al momento, non siamo affatto gli arbitri della situazione.»

«State diventando un disfattista, Bernard» sbuffò Dominici. «Fin dal momento in cui questi «cosi» si sono impadroniti dell’astronave, vi siete lasciato andare alle più nere previsioni.»

«No, io guardo solo le cose in faccia. Tanto, non c’è niente da guadagnare illudendo noi stessi. Siamo in un vicolo cieco. Come possiamo sfuggire, Dominici? Rispondete un po’ a questo. Dov’è la nave?»

«Be’… vediamo…»

Dominici tacque. Con un gelido cipiglio sul volto, raggiunse la porta del locale. La porta, al suo avvicinarsi, si aprì obbediente e Dominici uscì all’aperto. Gli altri lo seguirono attraverso quella cortesissima apertura.

Le verdi colline si stendevano in lente ondulazioni fino all’orizzonte.

Nuvolette leggere rompevano qua e là l’azzurro intenso e metallico del cielo.

Nessun segno dell’astronave.

Niente, assolutamente.

Bernard tentennò la testa con fare significativo. «Visto? Potremmo essere dovunque, su questo pianeta. In ogni punto possibile e immaginabile. A cinque, dieci, anche trentamila chilometri dall’astronave. Sono io che faccio il disfattista? O pensate di tornare indietro col transmat? Con il teletrasporto? A piedi? E da che parte ci dirigiamo? Non è che io voglia fare il guastafeste, è che non vedo come potremmo sperare di svignarcela.»

«Eh, sì! Siamo prigionieri» disse amareggiato, Dominici. «Prigionieri di questi… super-esseri.»

«Anche ammesso che potessimo raggiungere l’astronave» disse Havig, «loro ci riporterebbero immediatamente indietro, proprio come hanno fatto la prima volta. Bernard ha ragione. Siamo completamente alla loro mercé. È una realtà incontestabile.»

«Perché non pregate?» chiese Stone.

Havig si limitò a un’alzata di spalle. «Non ho mai cessato di pregare. Ma temo che siamo capitati in una situazione che Dio stesso ha creato per noi, e dalla quale non ci libererà finché non avrà raggiunto il Suo scopo.»

Bernard s’inginocchiò sul prato dinanzi all’edificio. Strappò uno stelo d’erba dagli orli seghettati con un brusco movimento della mano, provando un piacere perverso nel sentire la lieve puntura dell’erba che gli graffiava la pelle.

Le risate rosgollane avevano tolto ogni fascino mistico a tutta quell’esperienza. Angeli? Ma che razza di angeli. Impadronirsi così di altri esseri viventi, costringerli in uno stato di totale impotenza, tenerli in quella specie di sorridente prigionia, significava ferirli nel profondo del loro intimo. Una cosa è mortificare l’orgoglio arrogante di un essere o di una razza. Altra cosa è umiliarla, annichilirla, ridurla nell’impotenza più totale.

Bernard apriva e stringeva i pugni spasmodicamente. Riandava a un passato recentissimo, pensava alla vita placida ed egocentrica alla quale l’aveva strappato la chiamata del Tecnarca. Allora sedevo nella mia vibrosedia e mi godevo una vita tranquilla. E adesso sono un rappresentante della Terra in chissà quale tribunale macrocosmico.

«Ehi!» gridò Dominici. «Del cibo!»

Bernard si voltò. Colse un bagliore di luminescenza, e posati sull’erba dinanzi alla casa, vide un certo numero di vassoi. L’appetito gli si risvegliò all’improvviso. Si ricordò di essere lontano dall’astronave, lontano dai consueti cibi terrestri, e senza nessuna probabilità immediata di farvi ritorno.

«Tanto vale che ci sediamo e mangiamo» disse. «Il peggio che può capitarci è di morire.»

Afferrò una tartina dorata e l’addentò a titolo di esperimento. Gli si sciolse letteralmente in bocca, lasciandogli un sapore di miele. Ne mangiò un’altra, poi rivolse la sua attenzione ad alcune verdure azzurrastre che sembravano zucchine; su una caraffa di cristallo che conteneva del limpido vinello bianco; su certa frutta bianca e trasparente che per sapore e consistenza gli ricordava un poco le ciliege terrestri. Era tutto delizioso, e sembrava assolutamente illogico pensare che quelle leccornie potessero risultare fatali per il metabolismo umano. Mangiò a volontà, poi si allontanò per distendersi sull’erba.

Il sole era al tramonto. All’orizzonte si levava già una piccola luna, che somigliava a una perla piatta contro il cielo di un azzurro ora più cupo. Era una scena d’incantevole bellezza, semplice com’era stato semplice il pranzo, com’erano semplici le poche abitazioni rosgollane che aveva visto. Bastava quella semplicità a testimoniare sull’antichità di quella razza. I Rosgollani avevano superato lo stadio culturale che cerca la bellezza nella grandiosità e nella complessità, ed erano entrati nella serena maturità delle linee purissime e degli orizzonti sgombri. Bernard si chiese quanto fosse numerosa quella specie. Se vivevano sparsi come il panorama indicava, non potevano essere di certo in molti… ma forse c’erano migliaia di mondi rosgollani distribuiti come pisellini nello spazio, ciascuno con le sue poche migliaia di abitanti.

Bernard comprendeva la bellezza di una vita del genere, lui che aveva apprezzato la solitudine e la quiete, la pace di una riserva di pesca su una colonia fondata da poco, l’intimità del suo appartamento di Londra, il silenzio del suo studio, del sancta-sanctorum su Syrtis Major.

«Che cosa vorranno da noi?» chiese Hernandez.

«Li divertiamo» rispose Laurence. «Forse presto o tardi si stancheranno di noi, e ci lasceranno andare.»

«Andare dove?» chiese Nakamura. «Siamo a più di centomila anni-luce dal nostro sistema. O credete che i Rosgollani ci insegneranno anche la strada, prima di lasciarci andare?»

«Se ci lasceranno andare» disse Dominici.

«Non ci terranno qui a lungo» disse Bernard, che da tempo si era chiuso nel silenzio.

«No? E come lo sapete?»

«Perché non facciamo parte dello stato di cose che regna qui» rispose il sociologo. «Siamo entità disarmoniche con tutto quanto ci circonda. I Rosgollani hanno una loro vita tranquilla e organizzata. Perché dovrebbero installare un gruppetto di barbari come noi sul loro pacifico pianeta col rischio di rimetterci la pace? No, ci lasceranno andare quando avranno raggiunto il loro scopo. Non credo che questa gente abbia la vocazione di allevare esemplari sconosciuti.»

Ormai la notte calava rapidamente. È un mondo antico, questo pensò Bernard, con una razza antica, un sole antico, giornate brevi e nottate lunghe.

Stelle mai viste cominciarono ad ammiccare nel grigiore della penombra. Più tardi, quando quella penombra ancora incerta avesse ceduto il posto all’oscurità completa, sarebbe stato possibile forse intravedere anche la Via Lattea… e immaginarsi il Sole della Terra: un puntolino di luce, confuso tra gli altri.

L’oscurità scese di colpo, e i Terrestri rientrarono nel piccolo edificio a loro assegnato. Un caldo chiarore lo rendeva più gaio, e sembrava creare una protezione contro il freddo notturno.

«Che cosa facciamo» chiese Dominici, a nessuno in particolare. «Ci sistemiamo qui per la notte?»

«Possiamo fare qualcos’altro?» disse Havig. «Non abbiamo altra scelta, direi. Possiamo dormire, pregare e pensare.»

«Pregate per noi, Havig» disse tranquillamente Laurance. «Parlate con quel vostro Dio, chiedetegli di fare in modo che si possa tornare a casa.»

«Non credo che possa farlo» osservò Bernard. «Sapete Comandante, i Neopuritani pensano che sia irriverente chiedere a Dio favori speciali. Non è così, Havig?»

Havig ebbe uno dei suoi rari sorrisi. «Be’, avete ragione e torto entrambi, caro Bernard. Noi consideriamo un’impertinenza chiedere a Dio benefici terreni, come il lusso o il potere. Questo non sarebbe pregare: pregare significa comunicare, comprendere, amare. Disinteressatamente. D’altra parte, pregare per il nostro benessere, per la nostra salvezza… questo non è irriverente. Il Signore vuole che Gli domandiamo ciò che crediamo necessario, e che poi lasciamo giudicare a Lui, affidandoci alla Sua volontà, che vuole il nostro bene.»

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