Robert Silverberg - Mutazione

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Belzagor: un mondo misterioso, un pianeta preistorico immerso in un clima tropicale di vapori fumanti e di giungle intricate e abitato dai Nildoror, una razza indigena di esseri intelligenti simili ad elefanti, asserviti e schiavizzati dai terrestri durante i giorni dell’imperialismo interstellare, ma ora finalmente di nuovo liberi. Mentre i Nildoror attendono pazientemente la partenza delle ultime colonie umane, Edmund Gundersen, un tempo agente della Compagnia che aveva sottomesso gli abitanti del pianeta, e detentore del potere di vita e di morte, ritorna su questo strano mondo spinto da un intimo senso di colpa e dal desiderio di rivedere la bella Seena, da lui abbandonata dieci anni prima. Ma durante l’avventuroso pellegrinaggio nelle nebbie calde di Belzagor, molti incontri belli e orrendi attendono Gundersen, prima che egli possa osservare il mistico rituale della rinascita dei Nildoror, una cerimonia arcana che pochi terrestri hanno potuto vedere e a cui nessuno è sopravvissuto per riferirne.

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Afferrò la balaustra e pregò silenziosamente le lune di conservare la loro disposizione; come Faust, desiderava gridare al momento fuggevole: resta, resta per sempre, resta, sei stupendo! Ma le lune si spostarono, guidate dall’invisibile macchina newtoniana; sapeva che entro un’ora due sarebbero tramontate, e la magia sarebbe svanita. Dov’era Seena?

— Edmund? — disse lei, alle sue spalle.

Era di nuovo nuda, e di nuovo lo sdrucciolo era sul suo corpo, coprendole i lombi, allungando sottili pseudopodi che circondavano solo il capezzolo di ciascun seno. La luce delle cinque lune faceva scintillare e brillare la sua pelle bruna. Questa volta non gli sembrò troppo esplicita, né aggressiva; era perfetta nella sua nudità, e il momento era perfetto, e senza esitare andò da lei. Lasciò rapidamente cadere i suoi vestiti. Le appoggiò le mani sulle anche, toccando lo sdrucciolo, e la strana creatura comprese, scivolando obbediente dal corpo di lei, una cintura di castità infedele al suo compito. Seena si chinò verso di lui, i seni che dondolavano come campane di carne, e lui la baciò dappertutto, e si lasciarono cadere sul pavimento della veranda, sulla fredda pietra liscia.

Gli occhi di lei rimasero aperti, e più freddi del pavimento, più freddi della luce mutevole delle lune, anche nel momento in cui lui la penetrò.

Ma non c’era nulla di freddo nel suo abbraccio. I loro corpi si dibatterono e si avvinghiarono, e la sua pelle era morbida, i suoi baci affamati, e gli anni rotolarono via, finché non furono ancora i vecchi tempi, i tempi felici. Nel momento più alto avvertì ancora una volta, confusamente, il suono simile a un grugnito. La strinse con forza e chiuse gli occhi.

Dopo, giacquero fianco a fianco nella luce della luna, senza parlare, finché la brillante quinta luna non ebbe compiuto il suo viaggio attraverso il cielo e la Notte delle Cinque Lune fu come ogni altra notte.

10

Dormì da solo in una delle stanze degli ospiti all’ultimo piano della stazione. Svegliandosi più presto di quanto avesse previsto, osservò il sole sorgere sopra la gola, poi scese a passeggiare nel giardino, ancora luccicante di rugiada. Arrivò fino alla riva del fiume, cercando i suoi compagni nildor, ma non li vide. A lungo rimase accanto al fiume, guardando l’irresistibile precipitare dell’immensa massa di acqua. C’erano pesci in quel tratto di fiume? si chiese. Come evitavano di finire oltre l’orlo? Senza dubbio qualsiasi cosa venisse catturata da quella corrente immensa non poteva avere altra scelta che lasciarsi trasportare nella direzione voluta da essa, verso la terribile caduta.

Finalmente tornò alla stazione. Alla luce del mattino il giardino di Seena gli parve meno sinistro. Perfino le piante e gli animali dell’altopiano sembravano soltanto strani, non minacciosi; ciascuna zona geografica di quel mondo possedeva la sua fauna e flora tipiche, ecco tutto, e non era colpa delle creature dell’altopiano se l’uomo non si sentiva a suo agio fra di loro.

Un robot gli venne incontro sulla prima veranda, e gli offrì la colazione.

— Attenderò la donna — disse Gundersen.

— Potrà vederla solo molto più tardi.

— È strano. Non aveva l’abitudine di dormire tanto.

— È insieme all’uomo — spiegò il robot. — Sta con lui e lo conforta, a quest’ora.

— Quale uomo?

— L’uomo Kurtz, suo marito.

Stupito, Gundersen disse: — Kurtz è qui alla stazione?

— Giace ammalato nella sua stanza.

Lei gli aveva detto che era via, pensò Gundersen. Che non sapeva quando sarebbe tornato. Disse: — Era nella sua stanza ieri sera?

— Sì.

— Da quanto tempo è tornato dall’ultimo viaggio che ha fatto?

— Un anno al solstizio — disse il robot. — Forse dovreste consultare la donna, su queste faccende. Vi raggiungerà fra poco. Devo portare la colazione?

— Sì — disse Gundersen.

Ma Seena arrivò quasi subito. Dieci minuti dopo che ebbe finito i succhi, la frutta e i pesci fritti che il robot gli aveva portato, lei apparve sulla veranda, indossando uno scialle bianco e diafano, attraverso cui si scorgevano con chiarezza i contorni del suo corpo. Sembrava avesse dormito bene. La sua pelle era limpida e lucida, il passo vigoroso, i capelli scuri si gonfiavano nella brezza del mattino; ma la strana espressione rigida e tormentata dei suoi occhi era immutata, e contrastava con l’innocenza del nuovo giorno.

Gundersen disse: — Il robot mi ha detto di non aspettarti per la colazione. Ha detto che non saresti scesa per un po’.

— Non importa. Di solito non scendo così presto, è vero. Vieni a fare una nuotata?

— Nel fiume?

— No, sciocco! — Si tolse lo scialle e corse giù per i gradini che portavano al giardino. Lui rimase immobile un momento, affascinato dal ritmo delle sue braccia oscillanti, dalle natiche ondeggianti; poi la seguì. Lei prese per una svolta del sentiero, che prima non aveva notato, e si fermò davanti a una pozza circolare che sembrava essere stata scavata nella viva roccia, lungo il fianco del fiume. Poi si tuffò con un arco perfetto, e parve rimanere sospesa per un attimo sulla superficie dell’acqua scura, i seni resi sorprendentemente rotondi dalla gravità. Poi si immerse. Prima che risalisse per riprendere fiato, Gundersen si era spogliato e si era tuffato a sua volta. Anche in quel clima mite l’acqua era gelida.

— Viene da una sorgente sotterranea — gli disse Seena. — Non è meraviglioso? Come un rito di purificazione.

Un viticcio grigio si alzò dall’acqua dietro di lei, con in cima artigli gommosi. Gundersen non riuscì a trovare parole per avvertirla. Indicò con gesti frenetici delle dita ed emise versi acuti di orrore. Un secondo viticcio salì a spirale dal fondo e rimase sospeso sopra di lei. Sorridendo Seena si voltò, e parve accarezzare qualche grande creatura; le acque si agitarono, poi i viticci sparirono.

— Cos’era quello ?

— Il mostro dello stagno — disse lei. — Me l’ha portato Ced Cullen come regalo di compleanno, due anni fa. È una medusa dell’altopiano. Abitano nei laghi e pungono le prede.

— Quanto è grosso?

— Oh, come un grosso polipo direi. È molto affettuoso. Ho chiesto a Ced che mi catturasse un compagno, ma poi lui è andato a nord, e così dovrò pensarci io, prima o poi. Il povero mostro si sente solo. — Uscì dalla pozza e si stese su una lastra di liscia roccia nera, per asciugarsi al sole. Gundersen la seguì. Da quella parte della pozza, con la luce che penetrava nell’acqua all’angolo giusto, riuscì a scorgere sul fondo una grossa forma dai molti arti. Il regalo di compleanno di Seena.

Chiese: — Sapresti dirmi dove potrei trovare Ced Cullen, adesso?

— Nella zona delle nebbie.

— Questo lo so. È un territorio grande. In che punto, esattamente?

Lei rotolò sulla schiena e fletté le ginocchia. Il sole trasformò in prismi le goccioline d’acqua sui suoi seni. Dopo un lungo silenzio, disse: — Perché ci tieni tanto a trovarlo?

— Sto facendo un viaggio sentimentale, per rivedere i vecchi amici. Ced e io eravamo molto vicini, un tempo. Non è una ragione sufficiente?

— Non è una ragione per tradirlo, vero?

Lui la fissò. Teneva gli occhi chiusi, e i seni pesanti si alzavano e abbassavano lentamente, serenamente. — Cosa vorresti dire? — chiese.

— I nildor non ti hanno mandato a cercarlo?

— Che razza di assurdità sono queste? — esclamò lui, con voce che non suonò abbastanza indignata neppure alle sue orecchie.

— Perché fingere? — disse lei, parlando sempre dall’interno di quell’impenetrabile nucleo di sicurezza totale. — I nildor lo vogliono riportare indietro. A causa del trattato, non possono andare e prenderselo loro. I sulidoror non hanno voglia di estradarlo. Di certo nessuno dei terrestri che vivono su questo mondo lo andrà a prendere. Tu, come straniero, hai bisogno del permesso dei nildor per entrare nella zona delle nebbie, e dal momento che sei un tipo ligio alle regole, avrai probabilmente chiesto il permesso, e non c’è nessuna ragione per cui i nildor dovrebbero farti un favore, a meno che tu non faccia qualcosa in cambio. Eh? Come volevasi dimostrare.

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