In piedi accanto a un grosso macigno, Enoch fissava il corpo abbandonato fra i massi. "Povero ladro sfortunato" pensava "morto così lontano dalla tua casa, e per nulla…"
Ma forse non era poi da compiangere. Quel cervello, ora definitivamente distrutto, doveva aver concepito piani grandiosi, superiori anche a quelli ideati dalla mente di Alessandro, di Serse o di Napoleone: sogni di infinita potenza, perseguiti con cinismo, a qualunque costo, e di dimensioni tali da sorpassare ogni considerazione morale.
Enoch si sforzò di immaginare quali potessero essere stati, pur sapendo benissimo che oltrepassavano la portata della sua mente.
Una cosa era certa: in quel piano grandioso, la Terra era stata vista solo come un nascondiglio provvisorio, dove rifugiarsi finché gli avvenimenti avessero preso un corso favorevole. Il cadavere che giaceva ai suoi piedi impersonava dunque la disperazione del giocatore che ha perso anche l’ultima carta.
E, ironia del destino, quella creatura, nella sua fuga, aveva portato il Talismano proprio nel luogo dove viveva una sensitiva, su un pianeta dove nessuno avrebbe immaginato che ne esistessero. Enoch dubitava che Lucy avesse presagito l’arrivo del Talismano e ne fosse stata attratta come un pezzo di ferro dalla calamita. Forse, quando il Talismano era giunto, lei l’aveva saputo, e aveva sentito che doveva impossessarsene, che si trattava di qualcosa che aveva aspettato inconsciamente in tutti quegli anni di solitudine. Proprio come un bambino che, d’improvviso, vede una palla scintillante sull’albero di Natale e la vuole.
Quella creatura che ora giaceva morta ai suoi piedi, doveva esser stata abile e piena di risorse, perché queste erano qualità necessarie, non solo per impadronirsi del Talismano, ma per riuscire a tenerlo nascosto tanti anni e a intrufolarsi nella Centrale Galattica.
Ma ormai tutto era finito. Il Talismano era tornato al suo posto, con la nuova custode, una sordomuta nata sulla Terra, la più umile degli esseri umani. Grazie a lei vi sarebbe stata pace sul pianeta, e in un giorno non lontano anche la Terra sarebbe entrata a far parte della confraternita galattica.
Ora non c’erano più problemi da risolvere né decisioni da prendere. Lucy avrebbe pensato a tutto.
La stazione non sarebbe stata chiusa, e lui avrebbe potuto vuotare le scatole e disporre di nuovo i diari sugli scaffali. Poteva tornare a casa e mettersi tranquillamente al lavoro.
"Mi spiace" disse piano al corpo che giaceva tra i massi "mi spiace che sia stata proprio la mia mano a ucciderti…"
Si incamminò verso il dirupo che scendeva ripido al fiume. Alzò il fucile, lo tenne così, alto, per un momento; poi lo scagliò lontano, seguendolo con gli occhi mentre precipitava rimbalzando, finché lo vide cadere nell’acqua, con una sventagliata di spruzzi.
Sì, ci sarebbe stata pace sulla Terra, la guerra non sarebbe scoppiata. Qualcuno fuggiva urlando per il terrore che portava in sé… Qualcuno era tormentato da un rimorso più forte dello splendore del Talismano… Ma non ci sarebbe stata guerra.
Tuttavia bisognava fare ancora molta strada prima che la luce della vera pace brillasse nel cuore degli uomini.
Finché un solo uomo fosse fuggito urlando per il terrore, per qualunque genere di terrore, non avrebbe potuto esserci vera pace. Finché l’ultimo uomo non avesse gettato via la sua arma, di qualunque genere essa fosse, l’umanità non sarebbe stata in pace. E il fucile, pensava Enoch, era solo l’arma meno micidiale della Terra, era solo un simbolo della crudeltà dell’uomo verso l’uomo.
Rimase sul ciglio del dirupo, guardando le cupe ombre dei boschi sul versante opposto della valle, oltre il fiume. Sentiva la mano stranamente vuota, senza più il fucile, ma gli sembrava di essere entrato in un’epoca nuova: era come se un giorno, o un’era, fossero appena terminati e lui si trovasse in un mondo dove tutto era, vergine e luminoso, senza il ricordo di errori passati.
Il fiume scorreva indifferente in fondo alla valle. Nulla importava al fiume… Trascinava con sé le zanne di un animale preistorico, il teschio di una tigre dai denti a sciabola, il costato di un uomo, un albero morto, un sasso scagliato nelle sue acque: e anche il fucile. Inghiottiva tutto, tutto copriva di sabbia, e passava rapido, gorgogliando, con il suo segreto.
Un milione d’anni prima il fiume non esisteva in fondo a quella valle e, forse, fra un altro milione d’anni non ci sarebbe più stato. Ma ci sarebbe stato, però, ancora qualcosa che aveva un senso e un valore. "Questo il segreto dell’universo" si disse Enoch. "Esiste sempre qualcosa che vale!"
Si staccò a lenti passi dal ciglio del dirupo e, arrampicandosi sui massi, risalì la collina. Sentiva il fruscio di mille piccoli animali che strisciavano fra le foglie secche: su tutto il bosco aleggiava la serenità di quella luce splendente: non proprio così intensa, brillante e meravigliosa come quando essa aveva realmente illuminato quei luoghi, ma tuttavia ancora presente.
Uscito dal bosco, Enoch attraversò il campo e gli parve che l’edificio, cupo e buio sul ciglio della collina, non fosse più solo una stazione ma anche la sua vera casa, com’era stata un tempo.
Entrò nella stazione e gli sembrò che tutto fosse calmo e tranquillo, quasi come una tomba. Sulla scrivania ardeva una lampada e sul tavolino da caffè la piccola piramide mandava i suoi bagliori luminosi, simile a una di quelle sfere in cristallo che usavano nei ruggenti anni Venti per trasformare la pista da ballo in un posto magico. I riflessi schizzavano dappertutto, come un incredibile stormo di lucciole in technicolor.
Enoch si fermò un istante, indeciso, non sapendo che fare. Mancava qualcosa e un tratto si rese conto di cosa: in tanti anni c’era sempre stato un fucile, appeso al gancio o sopra la scrivania. Ma ora non c’era più.
Doveva calmarsi, pensò, e rimettersi al lavoro. Doveva riporre tutti gli oggetti che aveva imballato, scrivere molte pagine di diario e leggere i giornali. Aveva molte cose da fare.
Ulisse e Lucy erano partiti da un paio d’ore, diretti alla Centrale Galattica, ma la presenza del Talismano aleggiava ancora nella stanza, o forse non nella stanza, ma dentro di lui. Forse l’avrebbe portato con sé per sempre.
Attraversò la stanza con passo lento e andò a sedersi sul divano. Di fronte a lui la piramide di sfere continuava a mandare barbagli colorati. Allungò una mano per prenderla, poi rinunciò. A che serviva esaminarla per la millesima volta? Se non ne aveva capito il segreto prima, cosa poteva aspettarsi adesso?
Era un bellissimo oggetto, ma inutile.
Si chiese come Lucy se la sarebbe cavata e gli parve di sapere che stesse bene. Se la sarebbe cavata dovunque la portassero.
Invece di starsene seduto lì in ozio, avrebbe fatto meglio a mettersi al lavoro; a parte gli arretrati, ormai non lavorava più soltanto per sé, ma anche per la Terra. E presto la Terra avrebbe bussato alla porta. Erano previste conferenze, incontri e molte altre cose. Fra poche ore sarebbero arrivati i giornalisti. Ma prima sarebbe tornato Ulisse e con lui, forse, qualcun altro, per aiutarlo.
Avrebbe mandato giù un boccone, poi subito al lavoro. Se avesse lavorato tutta la notte, il grosso sarebbe andato a posto.
"Le notti di solitudine" pensò "sono ideali per lavorare." Si sentì abbandonato, una sensazione strana che non avrebbe dovuto provare. Non era più solo nel senso in cui lo aveva pensato appena poche ore prima: ora aveva la Terra e la galassia, Lucy e Ulisse, Winslowe e Lewis, e il vecchio filosofo sepolto nel frutteto, sotto i meli.
Si alzò e andò alla scrivania, dove prese la statuetta che Winslowe aveva scolpito per lui. La osservò alla luce della lampada, rigirandola lentamente fra le mani. Dava effettivamente un’idea di solitudine, l’essenziale solitudine di un uomo che aveva sempre camminato da solo.
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