Il sole gli dava un piacevole senso di benessere, di sicurezza perfino, tanto che, per un momento, dimenticò i problemi e le preoccupazioni che lo tormentavano. Ma erano vicini e tornò a chiudere gli occhi, sperando di riaddormentarsi e non trovarli più.
Oltre alle preoccupazioni e ai problemi, c’era qualcos’altro che non andava.
Gli facevano male il collo e le spalle, il cuscino era troppo duro e si sentiva irrigidito.
Riaprì gli occhi, si mosse per sistemarsi meglio e solo allora si accorse di non essere a letto. Era ancora seduto alla scrivania e si era addormentato con la testa appoggiata sul piano. Sentì la bocca amara e impastata e si alzò, stiracchiandosi per sciogliere i muscoli e le giunture intorpidite. I pensieri, le brutte notizie lette sui giornali gli affollavano ancora la mente, ma cercò di ignorarli almeno per un poco, rimandando a più tardi un nuovo esame.
Si accinse a scaldare il caffè e vide che sul tavolo erano rimaste le tazzine in cui aveva bevuto con Ulisse la sera prima, ancora sporche. Nella massa di oggetti che Ulisse aveva spostato per fare posto alle tazze vi era la piramide, inclinata su un fianco ma con le sfere che continuavano a ruotare, ognuna in direzione opposta a quella vicina e sprigionando lampi di colore.
Enoch raddrizzò l’oggetto e tastò con cura la base, alla ricerca della leva, incavo o pulsante che serviva a farlo funzionare. Ma la base era liscia e intatta, cosa che, del resto, sapeva già da tempo. Eppure Lucy era riuscita ad azionare la piramide a prima vista. Le sfere continuavano a muoversi da dodici ore, senza nessun risultato. O meglio, pensò: nessun risultato riconoscibile.
Rimise la piramide al suo posto e raccolse le tazze una sull’altra. Si chinò a prendere il bricco sul pavimento, ma non staccò gli occhi dalle sfere in movimento.
Era pazzesco. Non esisteva un congegno visibile per metterlo in moto, ma Lucy ci era riuscita e ora lui non sapeva come fermarlo. Forse era lo stesso, acceso o spento.
Andò all’acquaio con le tazze e la caffettiera.
Una calma pesante e opprimente gravava sulla stazione, ma l’oppressione poteva essere una sensazione di Enoch.
Attraversò la stanza e guardò la macchina. Nella notte non erano arrivati messaggi e la lastra era vuota. Stupido da parte sua meravigliarsi: se ne fosse arrivato uno la suoneria lo avrebbe avvertito e avrebbe continuato a funzionare fino a quando non avesse spinto la leva.
Che la stazione fosse già stata abbandonata e il traffico dirottato? No, non era possibile: abbandonare la postazione terrestre avrebbe significato rinunciare a tutte le successive, perché in quella zona della galassia non esistevano scorciatoie e non si potevano attuare percorsi alternativi. Del resto, non era insolito che passassero molte ore, anche un’intera giornata senza traffico. Il movimento era irregolare, non seguiva un modello preciso. A volte bisognava far aspettare un viaggiatore atteso regolarmente perché gli impianti erano tutti occupati; a volte, come adesso, le macchine se ne stavano a far niente perché non c’era nessuno.
"Sto diventando nervoso" pensò Enoch. "Nervoso."
L’avrebbero avvertito, prima di chiudere la stazione. Se non altro per cortesia.
Mise il bricco sul fuoco e aprì il frigorifero. Trovò un pacco di farinata ottenuta da un cereale che cresce su uno dei pianeti-giungla del Drago. Lo prese ma tornò a metterlo in frigorifero, preferendo due uova di quelle che Wins, il postino, gli portava dalla città un paio di volte al mese.
Una occhiata all’orologio lo avvertì che aveva dormito più del previsto. Era quasi l’ora della passeggiata quotidiana.
Mise un tegame sul fornello, aggiunse un pezzo di burro e quando il burro fu sciolto vi ruppe le uova.
Per quel giorno avrebbe potuto fare a meno di uscire, pensò. Sarebbe stata la prima volta, perché, salvo in caso di bufera, non aveva mai mancato la sua passeggiata. D’altra parte, ragionò con una punta d’irritazione, non aver mai mancato non significava che vi fosse costretto. Avrebbe ritirato la posta più tardi, facendo a meno di andarsene in giro; nel frattempo si sarebbe occupato delle cose che aveva trascurato il giorno prima. Doveva leggere i giornali, ancora ammucchiati sul tavolo, e scrivere il diario. C’era molto da scrivere, perché bisognava stendere un resoconto dettagliato di tutto quello che era successo, e non era poco.
Da quando la stazione aveva cominciato a funzionare si era imposto una regola precisa: mai trascurare il diario. A volte lo aveva fatto un po’ in ritardo, ma né il tempo né la pressione di altri impegni l’avevano mai persuaso a scrivere una parola di meno di quelle che erano necessarie a dire quel che c’era da dire.
Guardò i molti, grossi quaderni allineati negli scaffali sulla parete di fondo e provò un senso di orgoglio e soddisfazione per il lavoro svolto. Nei quaderni erano descritti gli avvenimenti di più d’un secolo, giorno per giorno.
Erano il suo legato, una specie di lascito al mondo; grazie a essi avrebbe riconquistato il diritto a far parte della specie umana. C’era scritto tutto quello che aveva visto, sentito e pensato in cento anni di contatti con le razze più disparate della galassia.
Mentre guardava i diari, i problemi che aveva messo in disparte per un poco tornarono ad assillarlo. Era riuscito a tenerli a bada quel tanto che bastava a schiarire la mente, a far tornare la vita nel corpo. Adesso non avrebbe più cercato di scacciarli: era inutile fingere di ignorarli.
Mise le uova nel piatto e si accinse a far colazione.
Poi tornò a guardare l’orologio: aveva ancora tempo per la sua passeggiata quotidiana.
L’uomo del ginseng lo aspettava alla sorgente.
Enoch lo scorse da lontano, e sopraffatto da una rabbia improvvisa si domandò se fosse venuto a dirgli che non potevano restituire il corpo dello splendente, che c’erano state difficoltà.
Ricordò che la sera prima aveva minacciato di uccidere chiunque si opponesse alla restituzione del cadavere e si pentì di aver parlato in quel modo. Si chiese se effettivamente fosse in grado di uccidere, anche se non sarebbe stata la prima volta; ma quello che era successo molti anni prima era diverso, si trattava di ammazzare o essere ammazzati.
Chiuse gli occhi e gli parve di rivedere il pendio su cui si arrampicavano le lunghe file di uomini in mezzo al fumo: uomini che risalivano la collina con un unico scopo, ucciderlo e con lui gli altri che difendevano la sommità.
Non era stata la prima volta e non sarebbe stata l’ultima, ma anni di violenza sembrarono coagularsi in quel singolo momento: non gli avvenimenti che erano venuti poi, ma l’attimo in cui aveva scorto lunghe file di uomini che salivano con l’intenzione di ucciderlo.
In quel momento s’era reso conto di quanto la guerra fosse pazzesca: l’inutile gesto che col tempo perde ogni senso, l’assurdo fomentare odio per avvenimenti che la memoria fa fatica a ricordare, la totale mancanza di logica nel dover dimostrare, morendo, di combattere per l’idea giusta o di poter affermare un principio.
Dai primordi della storia l’uomo aveva accettato quella follia come regola, insistendo nella sua strada fino a oggi, quando la follia tramutata in principio stava per spazzare via, se non il genere umano nella sua interezza, almeno i beni materiali e morali che erano diventati i suoi simboli, dopo secoli di lotte.
Lewis sedeva su un tronco abbattuto e quando vide arrivare Enoch si alzò.
— L’ho aspettata qui — disse. — Spero che vada bene.
Enoch attraversò la sorgente.
— Il cadavere arriverà nelle prime ore della sera — aggiunse Lewis. — Washington lo spedirà per aereo a Madison e un autocarro lo trasporterà fin qui.
Enoch annuì. — Mi fa piacere.
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