Alla luce di ciò che aveva appena detto Egtverchi, diventava facile capire l’esistenza di queste bande ferocemente delinquenziali. Anche se nessuno credeva più alla possibilità di una guerra atomica, nessuno credeva nemmeno a un completo ritorno della vita in superficie. I miliardi di tonnellate di cemento e acciaio dei Rifugi erano chiaramente lì per restarci. Gli adulti, ormai, non avevano più speranze per i figli, tanto meno per se stessi. Mentre Michelis era stato lontano, nell’Eden di Lithia, sulla Terra il numero di crimini commessi senza motivo — crimini commessi soltanto per ottenere una distrazione dalla vita opprimente dei corridoi — avevano superato la somma di tutti gli altri reati messi insieme. Soltanto la settimana precedente, qualche stupido della Commissione Pubblica dell’ONU aveva proposto di mettere dei tranquillanti nell’acqua potabile. L’Organizzazione Mondiale della Sanità l’aveva fatto espellere nel giro di ventiquattr’ore (se si fosse seguito il suggerimento, i crimini di quel genere sarebbero subito raddoppiati, perché l’uso dei tranquillanti avrebbe ulteriormente allentato i legami di responsabilità avvertiti dalla popolazione) ma il suggerimento era trapelato, e aveva fatto una pessima impressione sulla pubblica opinione.
E l’Organizzazione Mondiale della Sanità aveva ragione di preoccuparsene. La sua ultima inchiesta demografica, sotto la denominazione «Pazzia», aveva rivelato un totale di trentacinque milioni di schizofrenici paranoici precoci, riconosciuti come tali e non ricoverati, ognuno dei quali avrebbe dovuto essere sottoposto immediatamente alle cure del caso, se non che, così facendo, l’economia Rifugio avrebbe subito una diminuzione di mano d’opera più grave di quella che qualunque guerra della storia avesse mai inflitto all’umanità. Ognuno di quei trentacinque milioni d’individui rappresentava un pericolo serio per i suoi vicini e i suoi compagni di lavoro, ma l’economia Rifugio era troppo complicata per poterne fare a meno: per non parlare, poi, dei casi non diagnosticati, ambulatoriali, che probabilmente erano il doppio. Era chiaro che l’economia Rifugio non poteva continuare ancora un pezzo e che era ormai alla vigilia del crollo psicotico…
Con Egtverchi come medico curante?
Assurdo. Ma chi altro?
— Siete terribilmente di malumore, questa sera — la Contessa si stava lamentando. — Siete capace di divertire solo dei ragazzi?
— No, soltanto me stesso — si affrettò a rispondere Egtverchi. — Perché, naturalmente, sono anch’io un ragazzo. Vedete, dunque: non solo ho per genitori dei mammiferi, ma sono lo zio di me stesso, visto che gli umoristi per ragazzi della televisione sono sempre gli zii di tutti. Non mi apprezzate secondo i miei meriti, Contessa; di minuto in minuto divento sempre più interessante, ma voi non ve ne accorgete. Potrei trasformarmi in vostra madre e voi non fareste altro che sbadigliare.
— Vi siete già trasformato in mia madre — rispose la Contessa, con un’occhiata di sfida viperina. — Avete perfino le sue gote e gli stessi denti, insopportabilmente regolari. La voce anche! Mio Dio… Diventate qualcun altro, vi prego, purché non sia Lucien!
— Mi tramuterei nel Conte, se potessi — disse Egtverchi, con quello che a Michelis parve un rammarico sincero — ma non ho nessuna affinità per le trasformazione affini; non capisco ancora nemmeno le teorie di Haertel. Domani, forse?
— Mio Dio! — disse ancora la Contessa. — Mi domando come mi sia venuta l’idea d’invitarvi. Siete più noioso di quanto si possa sopportare. Non so perché vi sto ancora ad ascoltare. Ormai dovrei averne capito l’inutilità.
Tra lo stupore generale, Egtverchi improvvisamente si mise a cantare con una voce limpida e acuta di soprano: — Dolce Susanna… - Per un attimo Michelis ebbe la impressione che la voce venisse da qualcun altro; ma istantaneamente la Contessa si precipitò su Egtverchi, il volto sfigurato dall’ira.
— Smettete immediatamente! — disse con una voce più nuda e dura d’una ferita. Sotto la doratura del trucco, la sua espressione era irriconoscibile.
— Ma certo — rispose Egtverchi, soave. — Vedete bene che non sono vostra madre, dopo tutto. Conviene essere prudenti prima di fare certe accuse.
— Lurido demonio ricoperto di scaglie!
— Vi prego, Contessa; io ho le scaglie, voi un seno. È la natura che ci ha fatti così. Mi avevate chiesto di divertirvi; ho creduto che la mia canzoncina potesse riuscirvi gradita.
— Dove avete sentito quella canzone?
— In nessun luogo. L’ho ricomposta. Ho potuto vedere nei vostri occhi che siete normanna di nascita.
— Ma come hai fatto? — domandò Michelis, incuriosito suo malgrado. Era la prima volta che rilevava qualità musicali in Egtverchi.
— Attraverso i suoi geni, Mike — disse il Lithiano. La sua analitica mente lithiana aveva subito identificato la sostanza più che il senso della domanda. — È in questo modo che conosco il mio nome e quello di mio padre; E-G-T-V-E-R-C-H-I è lo schema genetico di uno dei miei cromosomi; gli alleli G, V, e I mi vengono, naturalmente, da mia madre; la mia corteccia cerebrale ha diretto accesso sensitivo alla mia composizione genetica. Noi vediamo la linea atavica ovunque volgiamo lo sguardo, così come voi vedete i colori: è uno degli spettri del mondo reale. I nostri antenati hanno selezionato questo senso in noi; non fareste male a imitarli. Può essere utile sapere chi sia un individuo ancor prima che abbia aperto bocca.
Michelis si sentì scosso da un brivido. Si chiese se Chtexa avesse menzionato questo fatto a Ruiz-Sanchez. No, probabilmente; una scoperta così affascinante per un biologo avrebbe certamente spinto il Gesuita a parlarne. Ad ogni modo, era troppo tardi per chiederglielo, perché ormai era in viaggio per Roma; Cleaver era ancor più lontano; e, quanto ad Agronski, non era in grado di saper nulla.
— Oh, ma noioso, noioso, noioso — disse la Contessa. Era tornata padrona di se stessa.
— Certo, per coloro che lo sono — rispose Egtverchi col suo eterno sorriso che riusciva quasi sempre a rendere inoffensive le sue parole. — Ma mi ero proposto di divertirvi, e non avete apprezzato il mio spirito. Però spetta anche a voi di divertirmi, sapete; sono ospite qui. Che cosa avete per esempio nel vostro sottosuolo? Andiamo a vedere. Dove sono i miei soldati da week-end? Qualcuno li svegli; abbiamo una spedizione da fare.
La folla degli invitati era stata ad ascoltare avidamente, felice di vedere la Contessa vacillare sotto gli attacchi ripetuti del Lithiano. Quend’ella chinò il torreggiante e dorato trofeo del capo, facendo strada verso i binali del trenino, acclamazioni confuse fecero tremare le pareti della sala. Liu si ritrasse a cercar rifugio contro Michelis, che le cinse con un braccio la vita.
— Mike, non andiamoci — mormorò lei. — Torniamo a casa. Ne ho avuto abbastanza.
Dal diario di Egtverchi: « 13 giugno. 13° settimana di cittadinanza. Questa settimana sono rimasto a casa. Gli ascensori della Terra non si fermano mai al mio piano. Devo scoprirne il motivo. Questa gente ha sempre un motivo per tutto quello che fa.»
Fu nella settimana in cui Egtverchi non parlò alla radiotelevisione che Agronski scoprì bruscamente di non sapere più la propria identità. Anche se a quell’epoca non ne aveva riconosciuto la natura, i primi sintomi premonitori della malattia s’erano manifestati in occasione della conferenza a quattro, a Xoredeshch Sfath, quando aveva cominciato a rendersi conto del fatto che non sapeva minimamente di che stessero parlando Mike, il Padre e Cleaver. Dopo un poco, gli era parso che nemmeno loro ne sapessero niente; i nastri sottili di logica e d’emozione con cui si ostinavano ad ornare l’umida atmosfera di Lithia sembravano non essere più appesi a nulla e nemmeno sfiorare terreno alcuno su cui gli esseri umani ch’egli conosceva avessero posato mai il piede.
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