— Tutti a terra! — gridò una voce maschia, possente.
Michelis guardò in basso, cautamente; gli girava ancora un po’ il capo. Chi aveva urlato l’ordine era un uomo con un gualcito abito da sera e dei capelli rosso fuoco; le sue spalle prepotenti avevano fatto scoppiare una delle cuciture della giacchetta. — Dovrete prendere il treno successivo: questa è la regola.
Michelis pensò di rifiutarsi; poi cambiò idea. Probabilmente, saltare giù dal vagoncino era meno rischioso che non il battersi con due persone che s’erano già guadagnate il diritto di «uscita» sulla sua poltrona e quella di Liu. Ogni luogo ha le sue regole di condotta. Una scaletta fu loro tesa, e Michelis, quando giunse il loro turno, aiutò Liu a scendere.
— Non fare opposizione — disse a bassa voce. — Se la piattaforma si mette a muoversi, cerca di mantenere l’equilibrio. Hai un accendino? Eccoti il mio. Se qualcuno ti si avvicina troppo, dagli un calcio, ma non avere paura per i macchinari: sembrano in perfetta efficienza.
Lo erano, ma Liu era atterrita e Michelis nutriva sentimenti omicidi quando finalmente giunse il treno successivo per portarli via; fu lieto di non avere sollevato discussioni con il suo predecessore: se qualcuno si fosse rifiutato di cedergli il posto, Michelis sarebbe stato capace di torcergli il collo.
La doccia di profumo che lo inzuppò quando il convoglio penetrò nella sala successiva non migliorò precisamente il suo umore, ma almeno la sala non richiedeva una partecipazione attiva. La sala consisteva in un bel giardino di nobili proporzioni, fatto di vetro soffiato in ogni tinta possibile, nel centro del quale modelli giavanesi viventi posavano per dei diorami d’una lussuria appena velata; benché le situazioni evocate fossero drammatiche all’estremo, i modelli, eccettuata la respirazione appena percettibile, non muovevano un muscolo; erano altrettanto immobili quanto il fogliame di vetro. Con grande sorpresa di Michelis, che al di fuori delle scienze non aveva praticamente nessun senso estetico, Liu guardava quelle scene immobili con una specie di approvazione grave e contenuta.
— È un’arte assai difficile, suggerire la danza senza movimento — mormorò improvvisamente la donna, come se avesse letto nel suo pensiero. — Difficile col pennello, ma quasi impossibile col corpo. Credo di conoscere l’artista che ha ideato tutto ciò. Sì, non può essere che lui…
Il chimico la fissò come se la vedesse per la prima volta e dall’onda di gelosia che lo sommerse seppe di amarla.
— Chi? — domandò con voce roca.
— Tsien-Hi, non c’è dubbio. L’ultimo dei classici. Lo credevo morto, ma questa non può essere una copia.
Davanti alla porta d’uscita, il trenino si soffermò per un istante: quanto bastava perché due modelli, che nonostante il pudore dei loro movimenti parevano oscenamente vivi, ponessero loro in mano un ventaglio coperto di disegni a china, fatti col pennellino. Dopo una sola occhiata, Michelis si ficcò in tasca il suo, timoroso di ammettere la proprietà di quell’oggetto mediante un gesto così impegnativo come quello di buttarlo via: ma Liu indicò in silenzio un ideogramma e piegò il proprio ventaglio con grande rispetto. — Sì — disse. — È proprio lui. Questi sono gli schizzi originali. Non avevo mai creduto di poterne possedere uno…
Il trenino si lanciò bruscamente in avanti. Il giardino svanì, ed essi si trovarono immersi in un caos vago e colorato, di emozioni incomprensibili. Non c’era nulla da vedere, da ascoltare o da toccare, e tuttavia Michelis si scoprì toccato fino al profondo dell’anima, e poi colpito ancora e ancora. Lanciò un grido, e udì confusamente di non essere il solo che gridava. Lottò per conservare il dominio di se stesso, ma non riuscì a riprenderlo, e… no, ra l’aveva quasi ripreso… Se soltanto fosse riuscito a pensare per un istante…
Ci riuscì, per un istante, e comprese cosa stava succedendo. La nuova cella era un lungo corridoio, diviso in quindici scomparti da pareti di aria in movimento. Entro ciascuno degli scomparti aleggiava fumo colorato, contenente un qualche gas che doveva colpire direttamente l’ipotalamo. Michelis riconobbe alcuni di quei gas: erano dei rozzi composti allucinogeni, inventati nel periodo d’oro dei tranquillanti, il secolo scorso. Sotto le ondate di paura, esaltazione religiosa, coraggio folle, brama di potere, e altre emozioni innominabili indotte da quei gas, provò una cupa rabbia intellettuale verso un modo così rozzo di pasticciare con i farmaci psicotropici al solo scopo di provare delle momentanee «esperienze»; tuttavia sapeva che quel tipo di stimolanti mentali non era affatto raro, nella civiltà del Rifugio. Quei fumi godevano della fama di non dare un’intossicazione permanente (e in effetti non la davano, per la maggior parte), ma tendevano certamente a ingenerare un’abitudine: anziché una necessità, facevano sorgere nel consumatore una dipendenza volontaria, che è una cosa molto diversa, ma che non è necessariamente meno pericolosa.
Una cortina nebbiosa e rosata, all’estremità del corridoio, risultò essere antiserotonina pura e concentrata: un vero atarassante, che spogliò la sua mente di ogni emozione, ad eccezione di una vaga soddisfazione generica per tutte le cose dell’universo. Ciò che dev’essere è già stabilito… tutto va per il meglio… c’è pace in ogni cosa…
In questo stato di condiscendenza acritica, i passeggeri del trenino furono sottoposti a una lunga serie di burle complicate ed atroci, disposte una dopo l’altra come in una catena di montaggio. L’ultima beffa consisteva in una ricreazione tridimensionale di un campo di concentramento del secolo precedente: lo scenografo, con arte diabolica, aveva disposto le cose in modo che coloro che erano nel trenino credessero di dovere essere i prossimi a finire nel forno. Quando la porta della fornace si chiuse alle loro spalle, scese su di loro un soffio di ossigeno puro, che ebbe il potere di schiarire la mente; tremanti d’orrore al pensiero di ciò che erano stati pronti ad accettare con gioia, i passeggeri vennero fatti scendere dal treno per unirsi a un gruppo di ex vittime, che ora si stavano sganasciando dalle risate.
L’unico desiderio di Michelis era quello di fuggire (soprattutto, non aveva alcuna intenzione di rimanere lì a prendersi beffe del prossimo carico di passeggeri sbalorditi) ma era troppo esausto per allontanarsi dall’anfiteatro, e Liu non riusciva a muovere un passo. Dovettero quindi rimanere seduti laggiù e attendere di essersi ripresi.
E furono fortunati ad averlo fatto. Mentre stavano centellinando le loro bevande (Michelis aveva nutrito turpi sospetti sul liquore ambrato che era contenuto nel suo bicchiere, ma la sostanza si rivelò non essere altro che dell’onesto brandy, molto gradito) il treno successivo fu salutato da un rombo scrosciante di applausi, mentre tutti si alzavano in piedi.
Egtverchi era arrivato.
C’era una vera turba ora nella sala da cocktail a pianterreno, ma Aristide era tutt’altro che felice; e tra il personale, varie teste erano già cadute. Aristide aveva in sé come un sesto senso, delicatissimo, che non mancava mai di avvertirlo quando una festa cominciava a inacidire, ed era già da molto che quel sesto senso aveva acceso il rosso del segnale d’allarme. L’arrivo dell’ospite d’onore, in particolare, era stato un fiasco enorme. Non erano presenti né la Contessa, né i padrini del mostro, né uno degli ospiti realmente importanti che erano stati invitati espressamente per l’ospite d’onore, e l’ospite d’onore stesso aveva costretto Aristide a far vedere, davanti a tutto il personale, di essere in preda al terrore.
Aristide si vergognava atrocemente della sua paura, ma ormai non c’era più nulla da fare. Lo avevano avvertito, sì, che si trattava di un mostro, ma non di un mostro simile: una creatura di oltre tre metri e cinquanta, un rettile che camminava più come un uomo che come un canguro, con enormi mascelle zannute sorridenti, bargigli che cambiavano continuamente di colore, mani che sembravano capaci di sminuzzare chicchessia come un pollo, una coda ondeggiante che continuava a spazzar via i vassoi dalle tavole e soprattutto una risata a raglio d’asino e una possente voce da tenore che parlava inglese con una perfezione così fredda e puntigliosa da far sì che Aristide si sentisse uno zotico siciliano appena sbarcato in panni d’emigrante. E all’ingresso del mostro, c’era stato il solo Aristide per dargli il benvenuto…
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