James Blish - Guerra al grande nulla

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Guerra al grande nulla: краткое содержание, описание и аннотация

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È possibile che gli altri mondi non siano abitati. Ma finora, niente esclude che possano invece ospitare forme di vita, simili o no alla nostra. Questo è un problema che le scoperte della nuova scienza rendono attuale e non più ignorabile, una questione che va considerata sotto tutti gli aspetti. Anche quello religioso. Infatti, fra i doveri della Chiesa c'è quello di mantenersi in linea coi tempi; e il punto a cui è arrivata la giovane scienza spaziale ha spinto appunto la Chiesa a interessarsi dell'eventualità che esistano altri pianeti abitati. A questo proposito importanti esponenti del Clero hanno consentito a rispondere alle domande dei giornalisti, e il risultato delle speciali recenti interviste è stato ampiamente pubblicato su autorevoli quotidiani. Il romanzo che presentiamo in questo numero sembra scritto proprio in seguito alle ipotesi formulate da un Padre Gesuita nel corso del colloquio cui abbiamo accennato. E, guarda caso, a protagonista del suo romanzo, James Blish ha scelto un Gesuita. Il tema è ardito, e solo un autore intelligente, obiettivo, e abile come Blish lo poteva affrontare. Ne è uscito il racconto più eccitante che sia mai stato scritto nel campo della fantascienza. Un romanzo che i lettori di Urania non possono ignorare.
Premio Hugo per miglior romanzo in 1959.

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Aristide fece un segno piegando il dito levato. Il suo assistente sgattaiolò fuori da dietro una decorazione floreale, la testa inclinata dall’abitudine delle riverenze, soffocando perfino il suono dei suoi passi felpati in omaggio all’arrivo del trenino in stazione; nello stridore dei freni, tese l’orecchio verso la bocca di Aristide.

— Osservate quell’individuo — disse Aristide senza muovere le labbra, indicando Agronski con una mossa impercettibile dell’anca. — Fra mezz’ora sarà completamente ubriaco. Portatelo fuori prima che crolli, ma che non lasci assolutamente la casa. Può darsi che la padrona lo cerchi più tardi. Sarà meglio trasportarlo nella camera di riposo e fargli un’iniezione appena cominci a muoversi.

L’assistente fece un cenno di assenso e si allontanò trotterellando, piegato quasi in due. Aristide parlava ancora in buon inglese corrente, commerciale; buon segno, finché durava…

Aristide riprese a osservare gli ospiti. Erano lievemente aumentati da qualche minuto a quella parte; ma egli ritenne più importante studiare le reazioni della Contessa all’assenza dell’ospite d’onore. Per il momento lo stesso Aristide non correva pericolo alcuno, sebbene potesse già indovinare l’irritazione in certe allusioni della Contessa. Fino a quel momento, tuttavia, s’era limitata a lanciare le sue frecciate contro i padrini del mostro, il dottor Michelis e la dottoressa Meid, che sembravano entrambi molto imbarazzati a rispondere.

Michelis continuava a ripetere, con una cortesia sempre più seccata a misura che la pazienza gli sfuggiva:

— Madame, ignoro assolutamente quando verrà. Non so nemmeno dove abiti. Ha promesso di venire. Il fatto che sia in ritardo non mi stupisce, ma non dubito che finirà per arrivare.

La Contessa si allontanò, ancheggiando con petulanza. Cominciava il pericolo, per Aristide: la Contessa non aveva mezzi di pressione sui padrini del mostro, quale che fosse la loro ignoranza della situazione. In virtù di chissà quale dote ereditaria, Lucien le Comte des Bois d’Averoigne, Procuratore di Canarsie, aveva avuto l’accortezza di ripartire giudiziosamente il suo denaro: ne dava il novantotto per cento alla moglie e utilizzava il restante due per cento per scomparire quasi tutto l’anno. Si diceva perfino che si dedicasse a ricerche scientifiche, sebbene nessuno sapesse in quale campo; certo, non poteva essere né la psiconetologia né l’ufonica, altrimenti la Contessa lo avrebbe saputo, dato che entrambe le scienze erano di moda. E, senza il Conte, la Contessa sarebbe stata una nullità, sostenuta soltanto dal denaro; se la creatura lithiana non fosse venuta, la Contessa non avrebbe potuto fare altro contro i suoi padrini che togliere i loro nomi dalla lista degli invitati alla prossima festa (cosa che comunque avrebbe fatto in qualsiasi caso). Invece, eran molte le cose che poteva fare ad Aristide. Licenziarlo non poteva, naturalmente (egli conservava con la massima cura certi particolari incartamenti a difesa di questa eventualità), ma poteva rendergli la vita professionalmente molto difficile. Chiamò con un cenno il suo secondo.

— Riserverete alla Senatrice Sharon il canapè delle emozioni appena ci saranno altre dieci persone in questo piano — ordinò seccamente. — Non mi piace l’aria che tira, Appena gli invitati saranno abbastanza numerosi, dovremo farli salire sui convogli in miniatura; la Sharon non è il capro espiatorio ideale per questo genere di cose, ma dovrà rassegnarsi. Seguite il mio consiglio, Cyril, o rimpiangerete il giorno in cui siete nato.

— Ai vostri comandi, Maestro — disse rispettosamente l’uomo, che non si era mai chiamato Cyril.

Michelis dapprima non aveva quasi badato al trenino, se non come a una cosa curiosa, ma esso era diventato più chiassoso con il passar del tempo. Pareva compiere il suo percorso in cinque minuti, ma Michelis finì per accorgersi che in realtà c’erano tre convogli; il primo caricava passeggeri di quel piano; il secondo riportava gruppi di persone dal piano inferiore, scaricando adepti straordinariamente esilarati tra gli ultimi arrivati (i quali stavano attenti a conservare il contegno serio e compito); e il terzo treno, generalmente vuoto data l’ora poco avanzata, riportava dal secondo piano sotterraneo gaudenti dagli occhi vitrei, che i domestici della Contessa facevano efficientemente dirottare lungo una sorta di pensilina coperta, bene in disparte dall’ingresso principale e accuratamente nascosta agli sguardi dei futuri candidati ai livelli inferiori. Quindi il ciclo ricominciava.

Michelis aveva tutte le intenzioni di starsene lontano dal trenino. Non gli piaceva fare il diplomatico, soprattutto ora che tutta la sua diplomazia non serviva a nulla, e inoltre era abituato a star solo, e i ricevimenti gli davano fastidio: perfino quelli piccoli, per non parlare di quelli grandi come questo. Dopo qualche tempo, però, cominciò a stancarsi di ripetere la solita scusa per Egtverchi, e si accorse che il salone da cocktail a pianterreno era quasi vuoto: in effetti la sua presenza e quella di Liu costringevano la loro ospite a fermarsi contro la propria volontà.

Quando Liu si accorse che il trenino non solo faceva il giro di quel piano, ma scendeva nel sottosuolo, Michelis non ebbe più scuse per rimanerne lontano. L’ascensore rapì tutto il resto degli ultimi arrivati, lasciandosi dietro soltanto i domestici e qualche attaché scientifico sbalordito, che probabilmente s’era sbagliato di ricevimento. Michelis cercò con lo sguardo Agronski, la cui presenza lo aveva stupito, ma il geologo era scomparso.

In treno, tutti urlarono d’allegria e di finto terrore, quando l’ascensore a vapore cominciò a trasportare il convoglio verso il piano inferiore, sprofondando nella nera tenebra e in un’umidità che sapeva di ruggine. Quindi le grandi porte si spalancarono bruscamente davanti a loro e il treno si mosse per uscire facendo una brusca virata sulle rotaie. Il suo muso a forma di spazzaneve si spinse subito poi attraverso una serie di doppie porte volanti, sprofondò i passeggeri in tenebre ancora più nere, e si fermò del tutto con un sussulto stridulo.

Nell’oscurità si levò un fuoco di fila di acute risate isteriche lanciate dalle donne, e di più gravi urla maschili.

— Oh, non ne posso più!

— Henry, sei tu?

— Lasciami, brutta sozza.

— Come mi gira la testa!

— Attenzione, questo treno del diavolo si rimette in moto.

— Scendi dal mio piede, figlio d’un cane.

— Ehi, dico, voi non siete mio marito!

— Oh, signora mia, e neppure lo vorrei essere.

— Quella donna farebbe meglio a piantarla.

Quindi le voci furono soffocate dall’urlo di una sirena, così prolungato e assordante che le orecchie di Michelis continuarono a ronzare anche dopo che il suono aveva superato i limiti estremi dell’audibilità. Poi un gran gemere di macchinari, una pallida luce violetta…

Il trenino stava ora serpeggiando nel vuoto, non sostenuto da niente. Stelle multicolori, ma fioche, turbinavano un po’ da per tutto, sorgendo da una parte del treno, passandovi sopra e poi tramontando sotto di esso, con un periodo di soli dieci secondi, da un «orizzonte» all’altro. Si udirono altre urla e altre risate, insieme con una specie di cigolio frenetico, poi la sirena ululò di nuovo, prima debolmente, poi trasformandosi in un sibilo penetrante, che echeggiava dentro la scatola cranica, prima di morire a poco a poco verso gli infrasuoni.

Liu si aggrappò al braccio di Michelis, ma lui non poteva fare altro che attaccarsi come un disperato alla sua poltrona. Ogni cellula del cervello gli lampeggiava d’allarme, ma era come paralizzato, in preda alla vertigine…

Delle luci.

L’universo si ristabilizzò immediatamente. Il piccolo treno riposava sornione sui suoi binari sostenuti da supporti a mensola. Non si era mai mosso. Nel fondo di un immenso imbuto, invitati coi capelli in disordine guardavano i passeggeri del trenino, quasi accecati, e li prendevano in giro sguaiatamente. Le «stelle» non erano state altro che macchie di pittura fluorescente, illuminate da lampade a raggi ultravioletti. L’illusione di roteare nel vuoto era stata indotta dalla sirena, che aveva turbato i canali semicircolari: l’orecchio interno che dà il senso dell’equilibrio.

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