E così cresceva, e andava alla deriva, cercando, ad ogni suo rifluire, di attaccarsi alle pareti fredde e lisce della sacca materna, che senza posa lo respingevano. Giunto allo stadio di gastrula, questo riflesso di volersi fissare scomparve, ed egli lo dimenticò del tutto. Si accontentava ora di galleggiare, e di sapere soltanto ciò che sapeva già all’inizio: la sua razza era Lithiana, il suo sesso maschile, il suo nome Egtverchi, suo padre Chtexa, la sua vita doveva cominciare; e la sua nascita sarebbe stata amara e buia come l’interno di un’anfora.
Poi si formò la sua notocorda e le sue cellule nervose si aggrovigliarono in un piccolo nodo, a una delle estremità. Ora aveva una parte anteriore e una parte posteriore, oltre che un nome. Aveva anche un cervello, ed era pesce adesso, poco più d’una larva, che girava e rigirava nel freddo seno di quel mare.
Un mare senza luce e senza onde, ma agitato comunque da un certo movimento, dal lento turbine delle correnti di convezione. E a volte, inoltre, qualcosa lo agitava che non era una corrente: qualcosa che lo forzava ad andare contro il fondo, o contro le pareti. Egli non conosceva il nome di questa forza (come pesce, non conosceva nulla: si limitava a muoversi in cerchio, con la irrimediabilità della sua fame), ma la combatteva ugualmente, come avrebbe combattuto il freddo e il caldo. Nella sua testa, immediatamente davanti alle branchie, c’era una sensibilità che lo avvertiva di dove si trovasse l’«alto». E che gli diceva che un pesce, nel suo ambiente naturale, possiede una massa e un’inerzia, ma non ha un peso. Le sporadiche onde di gravità (o di accelerazione) che lo schiacciavano in quell’acqua senza luce non facevano parte del mondo dei suoi istinti, e quando esse terminavano, egli si trovava spesso a nuotare disperatamente sulla propria schiena.
Poi venne il momento in cui non ci fu più nutrimento, in quel piccolo mare; ma il tempo e i calcoli di suo padre gli furono favorevoli. Proprio in quel momento, la forza peso ritornò, più forte di quanto non fosse mai stata prima, ed egli fu costretto a un lungo periodo di ristagno assoluto, durante il quale non fece altro che battere l’acqua sul fondo dell’urna, con movimenti lenti, esausti.
Quella fase alla fine cessò, e poi il piccolo mare cominciò a muoversi a strappi da un lato all’altro, in su e in giù, avanti e indietro. Egtverchi ora aveva le dimensioni di una larva d’anguilla. Sotto gli ossi pettorali si svilupparono due piccole sacche, che non erano collegate a nessun altro sistema del corpo, ma rapidamente si arricchivano di capillari. Non c’era, in quelle sacche, altro che un po’ d’azoto gassoso, appena quel tanto sufficiente a uguagliare la pressione. Col tempo, si sarebbero trasformate in polmoni rudimentali.
Poi fu la luce.
Innanzi tutto, il coperchio del mondo fu tolto. Gli occhi di Egtverchi non avrebbero potuto in nessun modo mettersi a fuoco su un oggetto, in quello stadio, e, come qualsiasi creatura evoluta, egli era soggetto alla legge neo-lamarckiana che dice che anche una facoltà completamente ereditaria si svilupperà male, se si forma senza avere avuto alcuna occasione di funzionare. Dotato, come Lithiano, di una sensibilità specifica alle variazioni delle pressioni ambientali, la lunga oscurità gli aveva causato minori danni potenziali di quelli che avrebbe causato, senza dubbio, ad altre creature: a una creatura terrestre, per esempio; ciò non di meno, ne avrebbe subito a suo tempo le conseguenze. In quel momento, tutto quello che poteva sentire era il fatto che nella direzione ascendente (stabile e costante, ora) c’era della luce.
Salì verso di essa, rimescolando con le pinne pettorali i tiepidi vortici dell’acqua.
Padre Ramon Ruiz-Sanchez, già del Perù, già di Lithia, e sempre membro della Compagnia di Gesù, provava, guardando i rapidi movimenti di quella piccola creatura, un bizzarro miscuglio d’emozioni. Non poteva evitare di sentire per quella piccola lucertola serpeggiante la pietà che provava per ogni creatura vivente, insieme con un’estasi estetica davanti alla sicurezza rapida e imprevedibile dei suoi movimenti. Tuttavia, quell’animaletto era lithiano…
Aveva avuto più tempo di quanto gliene occorresse per esplorare la nera tenebra vuota su cui si trovava. Ruiz-Sanchez non aveva mai sottovalutato il potere di cui era ancora dotato il Male: potere rimastogli — e la Chiesa era concorde su questo punto — anche dopo la sua caduta da presso il Trono dell’Altissimo. Come Gesuita, Ruiz-Sanchez aveva esaminato e discusso troppi casi di coscienza per dubitare ancora della potenza e della sottigliezza del Maligno. Ma che tra i suoi poteri l’Avversario contasse anche quello del creare, questo non gli era mai venuto in mente… prima di Lithia. Era un potere che doveva essere riservato a Dio e a Dio soltanto. Pensare che potesse esservi più di un demiurgo era un’eresia totale e, per di più, un’eresia antica.
Comunque fosse, era così, eresia o no. La totalità di Lithia e, in particolar modo, l’intera sua specie dominante, quella specie razionale e meravigliosa che erano i Lithiani, era stata creata dal Maligno, allo scopo di offrire agli uomini una tentazione nuova, specificamente intellettuale, scaturita come Minerva dal cervello di Giove. A causa di quella nascita, innaturale come quella narrata dal mito, coloro che potevano ammettere, anche per un solo istante, che un altro potere, oltre a quello di Dio, potesse creare, si sarebbero portati simbolicamente la mano alla fronte; ne sarebbe seguito un acuto, lancinante dolore nel cranio della teologia; un’emicrania morale; addirittura un’esplosione cosmologica, perché Minerva richiama sempre Marte, sulla Terra come — Ruiz-Sanchez ricordò con dolore — come in cielo.
Dopotutto, egli c’era stato, e sapeva.
Ma tutto ciò poteva attendere ancora un po’. L’essenziale, per il momento, era che quella piccola creatura, inoffensiva come un’anguilla di dieci centimetri, fosse ancora in vita e, a quanto sembrava, in buona salute. Ruiz-Sanchez, preso un recipiente pieno d’acqua e formicolante di migliaia di Cladocera e ciclopi allevati in coltura, ne versò quasi la metà nell’urna dai colori sottilmente brillanti. Immediatamente, il giovane Lithiano sprofondò nell’oscurità, all’inseguimento dei microscopici crostacei. L’appetito, rifletté il sacerdote, è un universale indicatore di buona salute.
— Guardatelo, che fame ha! — disse una voce dolce dietro le sue spalle. Egli alzò lo sguardo e sorrise. Quelle parole erano state pronunciate da Liu Meid, capo del laboratorio dell’ONU, alla quale il piccolo Lithiano era stato affidato per molti mesi a venire. Piccola, bruna, con un’aria di calma quasi infantile, la donna fissava l’interno del vaso, aspettando che la piccola sagoma riapparisse.
— Siete sicuro che non gli faranno male? — domandò.
— Spero di no — rispose Ruiz-Sanchez. — Sono crostacei della Terra, d’accordo, ma il metabolismo lithiano è straordinariamente analogo al nostro. Anche il pigmento del sangue è analogo all’emoglobina, anche se il suo metallo base, ovviamente, non è il ferro. Il loro plancton include forme molto simili ai ciclopi e alle pulci d’acqua. No, se è sopravvissuto al viaggio oso dire che le nostre ulteriori attenzioni non lo uccideranno.
— Il viaggio? — disse Liu lentamente. — Come avrebbe potuto nuocergli?
— Non potrei dire esattamente. Chtexa, suo padre, ce lo ha dato chiuso in quest’anfora, già sigillata. Non abbiamo avuto modo di sapere quali precauzioni avesse preso per proteggere suo figlio dalle varie tensioni del volo spaziale. E non abbiamo osato aprire il vaso per guardare: se c’era una cosa di cui eravamo sicuri, è che Chtexa non poteva avere sigillato il vaso senza le sue buone ragioni; dopo tutto, conosce la fisiologia della sua razza meglio di ognuno di noi, compreso me e il dottor Michelis.
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