James Blish - Guerra al grande nulla

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Guerra al grande nulla: краткое содержание, описание и аннотация

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È possibile che gli altri mondi non siano abitati. Ma finora, niente esclude che possano invece ospitare forme di vita, simili o no alla nostra. Questo è un problema che le scoperte della nuova scienza rendono attuale e non più ignorabile, una questione che va considerata sotto tutti gli aspetti. Anche quello religioso. Infatti, fra i doveri della Chiesa c'è quello di mantenersi in linea coi tempi; e il punto a cui è arrivata la giovane scienza spaziale ha spinto appunto la Chiesa a interessarsi dell'eventualità che esistano altri pianeti abitati. A questo proposito importanti esponenti del Clero hanno consentito a rispondere alle domande dei giornalisti, e il risultato delle speciali recenti interviste è stato ampiamente pubblicato su autorevoli quotidiani. Il romanzo che presentiamo in questo numero sembra scritto proprio in seguito alle ipotesi formulate da un Padre Gesuita nel corso del colloquio cui abbiamo accennato. E, guarda caso, a protagonista del suo romanzo, James Blish ha scelto un Gesuita. Il tema è ardito, e solo un autore intelligente, obiettivo, e abile come Blish lo poteva affrontare. Ne è uscito il racconto più eccitante che sia mai stato scritto nel campo della fantascienza. Un romanzo che i lettori di Urania non possono ignorare.
Premio Hugo per miglior romanzo in 1959.

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La frammentazione della Terra era stata il risultato finale della corsa internazionale al cosiddetto Rifugio degli anni compresi tra il 1960 e il 1985. La corsa alle bombe a fissione, cominciata nel 1945, era praticamente finita cinque anni dopo; la corsa alle bombe a fusione e quella ai missili balistici intercontinentali avevano chiesto ognuna altri cinque anni.

La corsa ai Rifugi aveva richiesto di più, non perché fosse stato necessario, per condurla a buon fine, acquisire nuove cognizioni tecniche o scientifiche, ma per l’ampiezza del programma di costruzioni che essa implicava. Per difensiva che fosse potuta apparire a prima vista, la corsa ai Rifugi aveva assunto tutte le caratteristiche di una classica corsa agli armamenti: ogni nazione rimasta indietro rappresentava un invito all’aggressione. C’era stata una differenza, tuttavia. La corsa ai Rifugi era stata intrapresa perché ci si rendeva conto che la minaccia d’una guerra nucleare era non solo imminente, ma trascendente; la guerra poteva scatenarsi in qualunque momento; il fatto che non avvenisse significava che si sarebbe dovuti vivere con quella minaccia sul capo per almeno un secolo, se non per cinque. Così che questa corsa era stata non soltanto frenetica, ma a lunga scadenza…

E come tutte le corse agli armamenti, alla fine, s’era distrutta da sé, questa volta, perché quelli che l’avevano pianificata, l’avevano pianificata per un tempo troppo lungo. L’economia Rifugio era diffusa per tutto il mondo ora, ma la corsa non s’era ancora conclusa quando avevano cominciato ad apparire segni palesi che la gente non si sarebbe affatto rassegnata a vivere a lungo sotto quel regime: non per cinque secoli, ma nemmeno per uno. Donde i Tumulti di Corridoio del 1993, primi sintomi significativi, a cui molti altri ne dovevano seguire.

I tumulti avevano offerto alle Nazioni Unite la scusa che occorreva loro per creare finalmente un autentico governo sovranazionale: uno stato planetario retto da una mano di ferro. I tumulti avevano offerto la scusa, e l’economia Rifugio, con la sua frammentazione neo-ellenica del potere politico, aveva dato all’ONU i mezzi.

Teoricamente, ciò avrebbe dovuto risolvere ogni cosa. Una guerra nucleare non era più concepibile fra gli Stati membri; la minaccia era stata stornata… ma come smantellare un’economia Rifugio? Un’economia la cui costruzione era costata venticinque miliardi di dollari all’anno, per venticinque anni? Un’economia sprofondata ora nel seno della Terra, in miliardi di tonnellate di cemento e acciaio, alla profondità di quasi due chilometri? Questo non poteva essere disfatto; il pianeta sarebbe stato ormai un mausoleo per i vivi fino a quando la Terra stessa fosse perita: tombe, tombe, tombe…

La parola risuonò confusamente nelle orecchie di Ruiz-Sanchez, lontana. Il basso rombare infrasonico della città sepolta faceva tremare i vetri davanti a lui. Mescolato con esso c’era un allarmante rumore di macina, che non posava mai e gli pareva più forte di quanto non fosse mai stato in precedenza: come il rumore di una palla di cannone che gira su una pista di legno.

— Spaventevole, non è vero? — disse la voce di Michelis alle sue spalle. Il Gesuita lanciò un’occhiata stupita alla massiccia figura del chimico: stupita non perché non l’avesse udito entrare, ma perché Michelis gli rivolgeva nuovamente la parola.

— Infatti — rispose. — E mi fa piacere che lo abbiate notato anche voi. Temevo che potesse essere una forma d’ipersensibilità da parte mia, dopo una così lunga assenza…

— Può darsi benissimo che la vera ragione sia questa — commentò Michelis in tono grave. — Sono stato assente anch’io per molto tempo.

Il prete scosse il capo.

— No, non si tratta d’ipersensibilità — disse — ma di un disagio reale. Queste sono condizioni intollerabili in cui far vivere la gente. E non si tratta soltanto di costringere le popolazioni a vivere novanta giorni su cento in fondo a un pozzo, ma del fatto, in realtà, che non c’è giorno in cui non si viva nella certezza di essere sull’orlo dell’annientamento. Abbiamo abituato i loro genitori a pensare in questi termini, a vivere nella paura, diversamente non si sarebbero mai trovate imposte sufficienti per pagare la costruzione dei rifugi, e naturalmente i figli sono stati allevati in questa paura. È inumano.

— Lo è poi davvero? — disse Michelis, dubbioso. — Per non so quanti secoli, l’umanità ha vissuto ossessionata dalla paura… fino a Pasteur, per esempio. Quanto tempo è passato da allora?

— È stato intorno al 1860 — rispose Ruiz-Sanchez. — Ma è molto diverso ora. Le pestilenze erano capricciose, v’era sempre una certa quantità di gente che aveva probabilità di sopravvivere; ma le bombe a fusione non risparmiano nessuno, sono universali. — Rabbrividì involontariamente. — E le abbiamo davanti a noi. Poco fa, mi sono colto a pensare che la minaccia sotto cui viviamo è non soltanto imminente, ma trascendente; la morte, nell’èra prescientifica, era imminente e immanente insieme, incombeva ed era implicita in ognuno, ma non era mai trascendente. In quel tempo, Dio solo era interno, esterno e trascendente insieme, e questa era la speranza della gente, allora. Oggi, invece di questa speranza, abbiamo dato al mondo la Morte.

— Scusatemi — disse il chimico, la cui faccia ossuta s’era fatta più dura del marmo. — Sapete che non posso discutere con voi in questo campo, Ramon. Sono già stato battuto una volta. E una volta mi basta.

Si voltò: Liu, che stava facendo un esperimento e offriva alla luce tutta una serie di provette, osservava Michelis di sotto le palpebre abbassate. Quando lo sguardo di Ruiz-Sanchez si posò su di lei, ella distolse prontamente gli occhi. Il Gesuita non capì se Liu si fosse accorta di essere stata sorpresa; ma le provette tintinnarono più del solito, quando lei le rimise nella rastrelliera.

— Scusatemi — disse. — Liu, vi presento il dottor Michelis, uno dei miei compagni su Lithia. Mike, vi presento la dottoressa Liu Meid, che si prenderà cura del figlio di Chtexa per un periodo indefinito, più o meno sotto la mia supervisione. Liu è uno dei migliori xenobiologi del mondo.

— Molto lieto — disse Michelis gravemente. — Dunque sarete voi e il Padre a fungere da genitori adottivi del nostro piccolo ospite lithiano. È una responsabilità molto pesante per una giovane donna, oso dire.

Il Gesuita provò la tentazione (assolutamente non cristiana) di dare all’allampanato chimico un calcio negli stinchi; ma nella voce di Michelis non pareva esserci coscientemente alcuna malizia.

La ragazza si limitò ad abbassare gli occhi e a trarre profondamente il respiro, mormorando con voce quasi inaudibile: — Ah-so-deska.

Michelis alzò le sopracciglia, ma dopo un attimo fu chiaro che Liu non intendeva dire altro, almeno questa volta. Un po’ imbarazzato, Michelis si rivolse al prete e si accorse che aveva ancora sulle labbra l’ombra di un sorriso.

— Dunque, sono «tutto piedi» — disse Michelis con un sorriso colpevole. — Ma temo di non avere il tempo di migliorare la mia educazione, almeno per qualche tempo. Ci sono numerose cose da concludere. Ramon, fra quanto tempo potrete affidare il figlio di Chtexa alle cure della dottoressa Meid? Ci è stato chiesto di redigere una versione ufficiale non segreta, del nostro rapporto su Lithia…

— Noi?

— Sì, voi e io.

— E Cleaver e Agronski?

— Cleaver non c’è — spiegò Michelis. — Non so nemmeno dove sia andato a finire. E per qualche ragione misteriosa non sembra che Agronski sia desiderato; forse, non ha sufficienti titoli accademici che accompagnano il suo nome. Si tratta del «Journal of Interstellar Research», e sapete quanto siano schizzinosi… sono dei parvenu in fatto di prestigio scientifico, cosa questa che li rende più accademici degli stessi accademici. Ma credo che valga la pena di fare questo lavoro, non fosse altro che per divulgare qualcuno dei nostri dati. Potrete trovare il tempo di farlo?

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