— L’avete uccisa?
— Stavenger l’ha uccisa. Papà, voglio dire, il maestro di caccia, ha scagliato l’arpione una volta soltanto. Non ho visto dove l’ha colpita, ma la volpe è stata tirata giù dall’albero e la muta l’ha divorata. — Al ricordo di quello che era successo subito dopo, Dimity arrossì, e se ne rese conto sentendo affluire un improvviso calore al viso.
Interpretando correttamente quel rossore, Rowena distolse il volto per non vedere la vergogna, l’imbarazzo, il pudore mortificato della figlia, e cercò qualche altro argomento: uno qualsiasi, pur di evitare quello. Era accaduto anche a lei, ogni volta, tuttavia non ne aveva mai parlato a nessuno. Per questo non aveva mai saputo, fino a quel momento, se fosse una colpa segreta soltanto sua, oppure condivisa da altri. Commentò: — Allora non hai veramente visto la volpe.
— Ho veduto soltanto un’ombra sull’albero, poi anche gli occhi, le zanne, e poi tutto è finito.
— Ah — sospirò Rowena, mentre le lacrime le scorrevano sul viso. Rideva di se stessa e delle proprie paure, si vergognava per la vergogna di Dimity, eppure provava sollievo.
— Mamma! Sto bene. Va tutto bene.
Tergendosi gli occhi, Rowena annuì. Non era accaduto nulla di tutto quello che avrebbe potuto andar male: Dimity era montata in sella, aveva cavalcato, non era caduta, non era stata aggredita dalla volpe, non aveva in alcun modo turbato i veltri.
— Mamma — sussurrò la ragazza, commossa alla vista delle lacrime, cercando in qualche modo di essere di conforto.
— Sì, Dimity?
— Durante il ritorno, un veltro non ha fatto altro che guardarmi. Aveva il manto a chiazze purpuree e non faceva altro che guardarmi. Tutte le volte che abbassavo gli occhi, vedevo che mi guardava.
— Non l’avrai fissato!
— Certo che no! So bene che non bisogna farlo. Anzi, ho finto di non accorgermene affatto. Però mi è parsa una cosa strana.
Per un poco, Rowena meditò in silenzio, indecisa se dire qualcosa, o dire troppo, o tacere. Infine spiegò: — In effetti, da questo punto di vista, i veltri sono strani: talvolta ci osservano, talaltra sembra che non si accorgano neppure di noi. Altre volte, invece, sembrano divertiti da noi. Lo sai.
— In realtà, non lo so proprio.
— Be’, il fatto è che hanno bisogno di noi, Dimity: dato che non possono arrampicarsi, non possono uccidere la volpe, se noi non la tiriamo giù.
— Ma per questo basterebbe un uomo solo, abbastanza forte da scagliare l’arpione.
— Oh, credo che vi sia ben altro. Sembra che i veltri godano del rituale della Caccia.
— Durante il ritorno, non ho fatto altro che chiedermi come sia cominciata la Caccia. So che sulla Terra, molto tempo fa, prima della Santità e della nostra partenza, si usava compiere la caccia al seguito. L’ho letto nel mio libro di storia, dove ho visto varie illustrazioni con i cavalli, i cani, e quelle piccole creature con la pelliccia, che però non assomigliano affatto alle nostre volpi. Non sono neppure riuscita a capire perché desiderassero ucciderle. Certo, con le nostre volpi non c’è altro da fare che ucciderle, ma perché proprio in questo modo?
— È semplice. Uno dei primi coloni divenne amico di una giovane cavalcatura e imparò a cavalcarla — rispose Rowena. — Poi il colono lo insegnò ad alcuni amici, e la giovane cavalcatura portò alcuni altri individui della sua razza, e così, poco a poco, ricominciò la Caccia.
— E i veltri?
— Non so. Una volta mio nonno mi disse che un giorno, semplicemente, apparvero, come se sapessero che avevamo bisogno di loro affinché la Caccia si potesse svolgere in modo adeguato. Arrivano sempre il giorno giusto, nel luogo giusto, proprio come fanno le cavalcature.
— Ma se li chiamiamo veltri sebbene non lo siano realmente, perché non chiamiamo «cavalli» le cavalcature? — chiese Dimity, proponendosi di pregare la madre di lavarle la schiena, e rovesciando la testa all’indietro per immergerla parzialmente nell’acqua calda, contenta di chiacchierare.
Rowena trasalì: — Oh, credo che agli Hippae non piacerebbe affatto.
— E non li urta essere chiamati «cavalcature»?
— Ma, mia cara, sai bene che non li chiamiamo mai così, quando ci possono sentire. Anzi, non parliamo mai di loro quando ci possono sentire.
— Provoca una strana sensazione, vero?
— Cosa? — chiese Rowena, balzando in piedi. — A cosa ti riferisci?
— Non ci si sente strani a cacciare?
In tono preoccupato, Rowena spiegò: — La Caccia esercita una sorta di effetto ipnotico. Altrimenti sarebbe piuttosto noiosa. — Mise un asciugamano piegato a portata di mano della figlia, quindi uscì dalla stanza da bagno, chiudendosi la porta alle spalle per non lasciar uscire il calore.
Un veltro ha guardato Dimity? pensò, aggrondata, mordendosi un labbro, con espressione improvvisamente preoccupata. Ne parlerò con Sylvan. Adesso sarà con Figor a discutere di quella faccenda della Santità, ma forse ha notato qualcosa. Senz’altro nessuno si è accorto di niente, ma lui forse sì. O forse è stata soltanto l’immaginazione di Dimity: sarebbe comprensibile, dopo tante ore di stanchezza e di sofferenza. In questo caso, però, sarebbe una fantasia ben strana. I veltri hanno ucciso la volpe, quindi erano certo di buonumore. Che ragione avrebbe avuto, uno di loro, per guardare Dimity? D’altronde, perché mai lei si sarebbe immaginata un simile incidente? Senza dubbio nessuno le ha mai detto nulla, a proposito di Janetta e di questo aspetto della Caccia. Sì, devo parlarne con Sylvan al più presto, appena si sarà presa una decisione su questa sciocchezza della missione scientifica, e tutti saranno liberi di pensare ad altro.
Erba.
Milioni di miglia quadrate di prateria, con villaggi ed estancia, con cacciatori e prede, dove il vento spira e la luce delle stelle cade sugli steli e sugli stami, e le rane informi gracidano per tutto il giorno e per tutta la notte, tranne quando misteriose creature lanciano il grande ululato nella tenebra punteggiata di stelle, provocando un silenzio stordente, arcano.
A settentrione, presso i confini della regione dell’erba corta, sono situate le rovine di una città degli Arbai, che non sono affatto dissimili da quelle che sono state scoperte sugli altri pianeti colonizzati, tranne il fatto che su Grass gli Arbai perirono di morte violenta. Fra le rovine, i Frati Verdi sono occupati a scavare, a classificare reperti, a copiare volumi della biblioteca arbai. Si dice che i Frati siano penitenti, anche se nessuno, su Grass, sa quali peccati debbano espiare, né se ne cura.
Poco a nord degli scavi, nel Monastero, gli altri Frati Verdi sono impegnati a coltivare orti ed allevare maiali e galline, oppure a vagare nelle praterie a predicare, forse agli Hippae, o forse alle volpi: chi può saperlo? Sono tutti penitenti, esiliati dalla Santità in quel luogo remoto e solitario. Erano già su Grass, benché non di loro volontà, quando arrivarono i primi aristocratici, e alcuni lamentano che saranno ancora qui, sempre contro la loro volontà, quando gli aristocratici saranno scomparsi.
Infine vi sono l’astroporto e la Città Plebea, situati nell’unico luogo su Grass dove l’erba cresce scarsa: un’area ovale, lunga e stretta, di circa cento miglia quadrate, attraversata da un’alta dorsale rocciosa e cinta dalla foresta palustre. Si tratta di una zona riservata ai commerci, con magazzini, fattorie idroponiche, cave, prati, miniere, e tutto il disordine, tutta la cacofonia, che sono tipiche delle città.
Nella Città Plebea, gli stranieri vanno e vengono senza dar noia a nessuno, liberi di dedicarsi ai loro affari incomprensibili e, come dicono i bon Damfels, spregevoli. All’astroporto, le grandi cosmonavi atterrano sulle loro code di fuoco, provenienti da Shafne, da Semling, e dal pianeta che quasi tutti chiamano Santità, se non quando viene loro ricordato che in realtà il suo nome è Terra: la culla dell’umanità. Gli uomini e le donne che giungono su Grass come viaggiatori e mercanti, artigiani e predicatori, nonché astronauti, hanno bisogno di alberghi e magazzini, negozi, bordelli e chiese. Vi sono persino bambini e campi da gioco, insegnanti e scuole.
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