Il segnale sorprendentemente forte che venne dal pianeta straniero mostrò una superficie sferica, solida, senza la minima indicazione delle chiazze verdi fosforescenti… come se il Vagabondo fosse stato liscio come una palla da biliardo!
Il pianeta straniero!… impossibile, ma era là, e si vedeva immenso, reale. Mentalmente, Don cercò di raccogliere i ricordi… frammenti di speculazioni e teorie, delle quali aveva letto qualcosa, e che riguardavano l'iperspazio: il concetto che un corpo potesse essere in grado di viaggiare da là a qui senza traversare il continuum noto che divideva i due punti, forse entrando, o scivolando, in un continuum a più dimensioni, del quale il nostro universo era soltanto una superficie. Ma dove, in tutta quella immensità sconfinata di stelle e nebulose e galassie, poteva trovarsi il là del pianeta straniero, dell'intruso penetrato nel sistema solare? Perché, in fondo, quel là avrebbe dovuto trovarsi nel nostro universo? Un continuum a più dimensioni avrebbe certamente avuto un'infinità di superfici tridimensionali, ciascuna delle quali sarebbe stata un cosmo separato.
Sul fondo della mente di Don, c'era solo una voce inquieta, che ripeteva:
«La Terra e il sole sono dall'altra parte di quel grosso globo a chiazze verdi che vedi a tribordo. Sono tramontati dieci minuti fa; sorgeranno tra altri venti. Io non ho viaggiato attraverso l'iperspazio, solo attraverso la luna. Io non sono nelle tenebre intergalattiche, né sto osservando una galassia a forma di covone, o di clessidra, mentre sette pallide nebulose verdi splendono livide a tribordo…»
Don indossava ancora la tuta spaziale, ma in quel momento si tolse il casco incrinato. Doveva esserci il casco di riserva, nel contenitore di emergenza. «Il rimedio è pronto,» borbottò, ma la sua gola si chiuse, al suono della sua stessa voce. La cabina era fredda e buia, ma lui non accese né la luce, né il riscaldamento… attenuò perfino le luci del quadro di comando. Gli pareva importante, più di ogni altra cosa, vedere tutto quel che poteva.
Stava guadagnando terreno rispetto alla Luna, certo, con la sua orbita interna: il covone di stelle davanti a lui si allargava molto lentamente a sinistra, mentre la nera massa della luna in eclissi si allontanava.
Improvvisamente, gli parve di vedere, sullo sfondo dello scintillare fitto di stelle della Via Lattea, minacciosi filamenti neri riunire la sommità del Vagabondo… che poteva chiamare il polo nord… al bordo più vicino, o naso, della luna. Intrecciati nello spazio, i neri fili erano così impercettibili che, come stelle debolissime, poteva vederli meglio se li osservava distogliendo lievemente lo sguardo.
Era come se, dopo avere catturato e ridotto all'impotenza la Luna, il Vagabondo stesse ora tessendo una tela nera intorno a essa, preparandosi a succhiarla completamente.
No, si disse. Non avrebbe dovuto cominciare a pensare ai ragni.
La voce continuava a ripetere:
«Il sole e la Terra sono oltre la massa chiazzata di verde a tribordo. Io sono Donald Barnard Merriam, Tenente dell'Astronautica degli Stati Uniti…»
Barbara Katz, con le spalle rivolte a quell'altro oceano che costeggiava l'America, 3.000 miglia a est degli studiosi dei dischi volanti, vide il mandala come la ruota dai raggi purpurei di un carro trainato da buoi. L'enorme ruota parve descrivere un quarto di giro, quando il pianeta toccò l'orizzonte.
«Accidenti, papà, sembra che il Vagabondo si stia sdraiando,» disse lei, provando improvvisamente un senso di sofferenza, e disperazione, perché non avrebbe potuto vedere la prossima faccia che il Vagabondo avrebbe mostrato agli uomini, né vedere la Luna uscire dalla sua ombra. Ma avrebbe visto lo spettacolo su tutti i canali televisivi. Oppure no? Ci sarà ancora la televisione? si domandò, guardandosi intorno, incredula. Dappertutto il cielo stava impallidendo, per quella luce di un'alba che non avrebbe raggiunto la Costa del Pacifico per altre tre ore.
Accanto a Barbara, Knolls Kettering III disse con una voce affaticata che lei non gli aveva udito prima.
«Sono stanchissimo… per favore…»
Lo prese per il braccio, e lui barcollò, e si mosse appoggiando gran parte del suo peso su di lei… ma non era un gran peso, onestamente. All'interno dell'abito bianco, il corpo del milionario pareva il guscio bruno e curvo di un insetto, mentre il viso aveva le guance scavate ed era percorso dal fitto reticolato di rughe che si vedeva in certe raffigurazioni di vecchie bis-bisnonne indiane. Barbara ne fu quasi sconvolta, ma poi ricordò che quello era il suo milionario privato, da preservare e coccolare. Allentò un poco la stretta sulla spalla dell'uomo, come se fosse stato un guscio fragile a rompersi.
La donna negra più anziana, vestita come la più giovane, in grigio-perla, con cuffia e colletto bianchi, arrivò di corsa, e prese il milionario dall'altra parte. Il contatto parve irritare l'uomo, e destarlo dal suo torpore.
«Hester,» disse, scostandosi da lei e avvicinandosi a Barbara. «Avevo detto a te, a Benjy e a Helen di andare a letto già molte ore fa.»
«Uh!» rise lei, sommessamente. «Come se avessimo potuto lasciarla a giocare al buio con quel telescopio! Guardi come porta il suo peso ora, Signor K. La plastica nel fianco si stanca di lavorare per tutta la notte, e si rompe facilmente.»
«La plastica non si può stancare, Hester,» obiettò lui, stancamente.
«Uh! non è certamente forte quanto lei, signor K!» disse lei, voltandosi a guardare, dall'altra parte, Barbara, con un'espressione interrogativa. Barbara annuì, con fermezza. Insieme, lo trasportarono attraverso il tappeto folto e immacolato del prato, salirono tre gradini immacolati di cemento, e attraversarono un'enorme cucina, immersa in una piacevole frescura, attrezzata con tanta ricchezza che, agli occhi di Barbara, parve quasi la cucina di un albergo.
Quando furono a metà di un'ampia scalinata, egli le fece fermare. Forse l'enorme, fresco, buio soggiorno attiguo alle scale lo aveva riportato nella notte, perché egli disse:
«Signorina Katz, ogni corpo celeste che appare eretto, quando è alto nel cielo, sembra coricarsi quando sorge e tramonta. Questo vale anche per le costellazioni. Spesso ho pensato…»
«Andiamo, andiamo, Signor K, lei ha bisogno di riposo,» disse Hester, ma egli diede uno scrollone stanco con il braccio, e disse, «Spesso ho pensato che la riposta alla domanda della Sfinge, e cioè su che cosa si muove su quattro gambe al mattino, due gambe a mezzogiorno, e tre gambe alla sera non fosse l'Uomo, ma la costellazione di Orione, che cammina nel cielo proprio davanti alla Stella del Cane, il cui sorgere segnala le inondazioni del Nilo.»
La sua voce tremò, pronunciando le ultime parole, e la testa si abbassò, e permise a Barbara e alla cameriera di portarlo di sopra. Barbara, sentendo il peso sul braccio… più di quanto non si appoggiasse al braccio di Hester, fu compiaciuta di notare… pensò: Penso di capire perché stai pensando a tre gambe alla sera, papà… o quattro.
Lo posarono su un grande letto, in una camera da letto buia che era più vasta della cucina. Hester prese qualcosa dal cuscino e lo infilò in un cassetto, poi cambiò idea e lasciò che Barbara vedesse l'oggetto.
Si trattava di una bambola snella, dai capelli neri, alta venti centimetri, che indossava una sottoveste nera, e calze nere, e dei lunghi guanti neri.
Knolls Kettering III mormorò, con voce stanca:
«Per mezzogiorno, leggi mezzanotte.»
Hester sollevò lo sguardo, osservò il corto vestito nero di Barbara, e le lunghe calze e i guanti neri, e i capelli neri, e sorrise.
Barbara non avrebbe potuto trattenersi dal rispondere al sorriso neppure se lo avesse voluto.
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