«Sei proprio l’Odisseo del dramma del lino?» chiese Hannah.
«Non ho mai visto il dramma del lino» rispose lui.
Ada notò che in realtà non aveva confermato né negato di essere Odisseo, si era limitato a eludere la domanda.
«Come sei arrivato qui?» chiese Harman. «E da dove?»
«È una risposta complessa» disse Odisseo. «Ormai viaggio da un po’ di tempo nel tentativo di trovare la via di casa. Questo è solo un punto di sosta, un posto dove riposare, che lascerò fra qualche settimana. Preferirei raccontare una parte della mia storia più tardi, se non vi spiace. Magari stasera, durante la cena. Savi Uhr potrebbe forse aiutarmi a dare un senso ad alcune parti del mio racconto.»
Ada ritenne davvero strano sentire uno che parlava la loro lingua, il Common English , come se non fosse la sua lingua madre: era la prima volta che sentiva un’inflessione diversa. Nel suo mondo basato sul fax, dove tutti vivevano dappertutto, non esistevano neppure dialetti regionali.
I sei uscirono sulla sommità della torre, dove Savi aveva fatto posare il sonie. Emersero proprio mentre il sole toccava la cima del più meridionale dei due aguzzi picchi ai quali il ponte era ancorato. Il vento da ovest era forte e freddo. I sei andarono al parapetto sul bordo della piattaforma e guardarono la sella erbosa e le terrazze con le rovine, oltre duecentocinquanta metri più in basso.
«L’ultima volta che sono venuta al Golden Gate, tre settimane fa» disse Savi «Odisseo era in uno dei sarcofagi criotemporali dove dormo di solito. Il suo arrivo… e ciò che significa… è la ragione per cui alla fine mi sono messa in contatto con voi, lasciando quelle indicazioni sulla roccia nella Valle Secca.»
Ada, Harman, Hannah e Daeman fissarono la vecchia: non capivano, era chiaro, né alcuni termini né il significato della sua dichiarazione. Savi non si spiegò. I quattro aspettarono che Odisseo dicesse qualche parola di chiarimento.
«Cosa c’è per cena?» chiese Odisseo.
«Ancora un po’ della stessa roba» rispose Savi.
Odisseo scosse la testa. «No.» Puntò il dito, largo e tozzo, su Harman e poi su Daeman. «Voi due. Resta un’ora di luce. Un buon momento per andare a caccia. Venite con me?»
«No!» disse subito Daeman.
«Sì» accettò Harman.
«Io voglio venire» intervenne Ada, sorprendendosi per l’urgenza che mise nel tono. «Per favore.»
Odisseo la fissò a lungo. «Va bene» acconsentì alla fine.
«Sarebbe meglio che venissi anch’io» disse Savi, in tono che parve dubbioso.
«So usare la tua macchina» la tranquillizzò Odisseo, indicando con un cenno il sonie.
«Lo so, ma…» Toccò l’arma che teneva nella cintura.
«Non ce n’è bisogno. Cerco solo cibo, non la guerra. Là sotto non ci saranno voynix.»
Savi esitò ancora.
Odisseo guardò Ada e Harman. «Aspettate qui, vado a prendere lancia e scudo.»
Harman rise, prima di capire che quell’uomo dal petto largo come un barile non scherzava affatto.
Odisseo sapeva pilotare il sonie. Decollarono dalla piattaforma superiore della torre, girarono sull’alta sella con le rovine, gettando complicate ombre alla luce del sole ormai basso, e scesero ad alta velocità in una vallata.
«Credevo che volessi andare a caccia sotto il ponte» disse Harman, superando il sibilo del vento.
Odisseo scosse la testa. Ada notò che gli argentei capelli gli ricadevano sul collo come una criniera ricciuta. «Lì non c’è niente, a parte giaguari, scoiattoli e fantasmi» rispose Odisseo. «Dobbiamo inoltrarci nelle praterie, per trovare selvaggina. E ho in mente una preda particolare.»
Uscirono dall’imboccatura del canyon, si allontanarono a grande velocità dalle montagne e sorvolarono ad alta quota praterie punteggiate di torreggianti cicadacee e di alberi dalla chioma a felce. Il sole calava, ma era ancora sopra le montagne e ogni cosa, nella piana, gettava una lunga ombra. Comparve un branco di grandi animali erbivori che Ada non riconobbe: avevano manto marrone e quarti posteriori a strisce bianche. Erano centinaia, simili ad antilopi nella forma, ma di dimensioni almeno triple, con lunghe zampe dalle strane articolazioni, collo lungo e flessuoso, muso sporgente e penzolante che pareva un roseo tubo di gomma. Il sonie non emise rumore nel piombare sopra di essi e gli animali continuarono a brucare senza nemmeno alzare la testa.
«Cosa sono?» chiese Harman.
«Roba da mangiare» rispose Odisseo. Scese di quota, eseguì un giro e atterrò dietro alti cespugli di felci, una trentina di metri sottovento rispetto al branco al pascolo. Il sole tramontava.
Oltre a due lance assurdamente lunghe (erano più lunghe del sonie e in volo la parte finale dell’asta sporgeva ben oltre la poppa della macchina volante e fuori della bolla del campo di forza), Odisseo aveva portato uno scudo rotondo fatto di bronzo lavorato e di strati di pelle di bue, nonché una corta spada con fodero e un coltello che si era infilato nella cintura della veste. Ada (che era stata sotto il lino più di frequente di quanto non avesse ammesso con Harman) si sentiva un po’ stordita per la giustapposizione al suo mondo (o a quella selvaggia versione del suo mondo) di un uomo uscito dal fantastico dramma di Troia. Si alzò dal sonie, che aveva toccato terra, e si mosse per seguire Odisseo e Harman.
«No» disse Odisseo, brusco. «Restate nel veicolo.»
«Nemmeno per sogno!» protestò Ada.
Odisseo sospirò e parlò a voce molto bassa. «Allora mettetevi lì, dietro quel cespuglio. Non muovetevi. Se un animale si avvicina, salite sul sonie e attivate il campo di forza.»
«Non so come si fa» rispose Harman in un bisbiglio.
«Ho lasciato in funzione l’IA» disse Odisseo. «Dovete solo stendervi sul sonie e dire: "Campo di forza acceso".»
Portando tutt’e due le lance, si addentrò nella piana erbosa, a passi lenti, senza fare rumore, verso gli animali al pascolo. Ada udiva le creature dal muso allungato grugnire e masticare, sentiva il rumore dell’erba strappata dai denti e il forte puzzo di selvatico. Mentre Odisseo si avvicinava, gli ammali non si diedero alla fuga; quando quelli ai bordi del branco finalmente alzarono la testa, Odisseo era già a una decina di metri. Si fermò, posò a terra una lancia e lo scudo e soppesò l’altra.
Gli animali avevano smesso di brucare, guardavano con attenzione lo strano bipede, ma non parevano allarmati.
Odisseo inarcò il corpo possente e scagliò la lancia, che volò dritta a bersaglio, colpì sopra il petto l’animale più vicino e quasi gli trapassò il collo lungo e robusto. L’animale girò su se stesso, emise un verso soffocato e stramazzò a terra.
Gli altri erbivori sbuffarono, belarono e si lanciarono di corsa, tutti a zigzag, in un modo che Ada non aveva mai visto, reso possibile dalle bizzarre articolazioni delle zampe che permettevano cambi di direzione quasi istantanei; l’intero branco sparì rumorosamente in un burroncello un paio di chilometri verso nord.
Odisseo si piegò sul ginocchio accanto all’animale morto ed estrasse dalla cintura il coltello dalla lama corta e incurvata. Con rapidi colpi aprì l’addome, estrasse organi e viscere (li gettò nell’erba, escluso quello che pareva il fegato, che depose su un piccolo telo di plastica già allargato accanto a sé) poi scorticò una coscia, staccò una grossa fetta di carne rossa e mise anche quella sul telo. Quindi tagliò la gola, facendo colare sull’erba altro sangue, e liberò la lancia, badando bene a non spezzarla. Ne ripulì con cura la punta di bronzo, strofinandola sull’erba.
Ada, sempre accanto al cespuglio, sentì un’ondata di vertigini e decise di sedersi sull’erba anziché rischiare di cadere svenuta. Non aveva mai visto un uomo uccidere un animale, figurarsi macellarlo e spellarlo con tale abilità. Un lavoro davvero efficiente. Vergognandosi della propria reazione e cercando di non perdere i sensi, abbassò la testa sulle ginocchia finché non smise di vedere puntini neri danzarle davanti agli occhi.
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