Dan Simmons - Ilium

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Ilium: краткое содержание, описание и аннотация

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Attenzione! Thomas Hockenberry è stato un insegnante universitario di storia, con una vita assolutamente normale. Per quale motivo, allora, si trova adesso ad assistere alla Guerra di Troia, al servizio degli dèi dell’antica Grecia? E perché gli stessi dèi sembrano padroneggiare una tecnologia avanzatissima, con la quale cercano di alterare il corso degli eventi e di uccidersi a vicenda? Intanto, in un futuro lontano migliaia di anni, su una Terra dove i pochi abitanti rimasti hanno come sola occupazione il divertimento, solo un uomo ricorda ancora l’antica arte della lettura e la sfrutta cercando di risolvere l’enigma più grande di tutti: chi ha costruito le macchine che governano il pianeta? Dall’autore che ha cambiato la fantascienza, la sua saga più intensa e appassionante, dove il gusto per la ricostruzione storica si mescola con i grandi scenari di un futuro apocalittico e affascinante.
Vincitore del premio Locus per il miglior romanzo di fantascienza in 2004.
Nominato per il premio Hugo per il miglior romanzo in 2004.

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«Non posso.»

«Puoi!» ha gridato Andromaca, staccandosi dall’abbraccio. «Ma non lo farai!»

«Sì» ha risposto Ettore. «Non lo farò.»

«Sai cosa mi accadrà, nobile Ettore, quando morirai della tua nobile morte e diventerai cibo per i cani achei?»

Ho visto Ettore trasalire, ma restare in silenzio.

«Sarò trascinata via come una qualsiasi puttana di un sudato condottiero greco!» ha gridato Andromaca, così forte che l’ho sentita benissimo a mezzo caseggiato di distanza. «Portata ad Argo come bottino di guerra, come schiava per Aiace il Grande o Aiace il Piccolo o per il terribile Diomede o per qualche condottiero meno importante, per essere scopata a capriccio!»

«Sì» ha detto Ettore, con sguardo sofferente, ma fermo. «Ma io sarò morto e la terra sopra di me soffocherà le tue grida.»

«Sì, oh, sì» ha gridato Andromaca, piangendo e ridendo insieme, ora. «Il nobile Ettore sarà morto. E suo figlio che tutti i cittadini di Ilio chiamano Astianatte, "Signore della città", sarò schiavo dei porci achei, strappato alla sua madre schiava e puttana. Sarà questa la tua nobile eredità, o nobile Ettore?»

Ha chiamato più vicino la bambinaia e ha preso in braccio il figlio, tenendolo come scudo fra sé e il marito.

Ho visto ora il dolore sul viso di Ettore, ma lui ha proteso le braccia verso il bimbo. «Vieni qui, Scamandrio» ha detto, usando il vero nome del bambino, non il nomignolo datogli dal popolo.

Il bambino si è ritratto e si è messo a strillare. Le urla giungevano fin sulla torre dove ero appollaiato, cinque o sei tetti più in là.

Era l’elmo. L’elmo di Ettore. Il bronzo lucido, brillante, schizzato di sangue e di sporco, rifletteva la luce del sole e rimandava un’immagine distorta del parapetto e del bambino stesso. L’elmo, col fiammeggiante cimiero di crine di cavallo e le lucidissime protezioni metalliche intorno agli occhi e sul naso.

Il bambino strillava e si rincantucciava contro il petto della madre, impaurito dal padre.

In un momento come quello, ci si sarebbe aspettato che Ettore restasse sconvolto (niente abbraccio finale al figlio?) e invece lui si è messo a ridere, ha gettato indietro la testa e ha riso di nuovo, di cuore e a lungo. Dopo un minuto, anche Andromaca si è messa a ridere.

Ettore sì è tolto l’elmo, sfolgorante nella luce del sole al tramonto, e l’ha posato sul bastione. Ha preso in braccio il figlio e ha cominciato a lanciarlo in aria e afferrarlo al volo, finché il bambino non strillava più di paura, ma di gioia. Tenendo il figlio nell’incavo del braccio destro, col sinistro Ettore ha stretto a sé Andromaca.

Sempre sorridendo, ha alzato al cielo il viso. «Zeus, ascoltami! Tutti voi immortali, ascoltatemi!»

I soldati di guardia e le donne sul bastione si sono zittiti. Nelle vie è sceso un silenzio innaturale. La forte voce di Ettore si udiva a caseggiati di distanza.

«Concedetemi che questo bambino, mio figlio, del quale sona più che soddisfatto, sia come me, primo in gloria fra i troiani! Forte e coraggioso come me, Ettore, suo padre! E concedete, o dèi, che Scamandrio, figlio di Ettore, un giorno governi tutta Ilio, in potere e in gloria, e che tutti, dicano: "È più valoroso di suo padre!". Questa è la mia preghiera, o dèi, e non chiedo altro.»

Detto questo, ha ridato il bambino ad Andromeda, ha baciato l’uno e l’altra e ha lasciato le mura per il campo di battaglia.

Ammetto che le ore successive all’addio di Ettore alla moglie non sono state per me il massimo. Non mi ha migliorato l’umore sapere che il prossimo anno Andromaca sarà davvero portata via dalla città in fiamme alla terra dove sarà una costosa schiava per altri uomini. Né mi ha aiutato sapere che l’acheo che la prenderà prigioniera (Pirro, destinato a diventare re della tribù epirota dei molossi e ad avere una tomba da eroe a Delfi) strapperà dal seno della nutrice il figlio di Ettore, Scamandrio (detto Astianatte, "Signore della città", dal popolo di Ilio), e lo getterà dall’alto delle mura a sfracellarsi a terra. Lo stesso Pirro ucciderà il padre di Ettore e di Paride, re Priamo, nel suo stesso palazzo, sull’altare di Zeus. In una sola notte la Casa di Priamo si estinguerà. È un pensiero deprimente.

Questa non è una difesa per ciò che ho fatto dopo: la riporto come parziale spiegazione.

Ho vagato per le vie di Ilio fino al calar della notte e oltre, più solo e depresso di quanto non mi sia mai sentito nei nove anni da scoliaste. Ero ancora vestito da lanciere troiano (pronto a usare al minimo segno di pericolo l’Elmo di Ade e il medaglione TQ per una fuga istantanea) e dopo un poco mi sono ritrovato nei pressi della dimora di Elena. Confesso d’essere venuto qui spesso, nel corso degli anni, rubando il tempo alle osservazioni da scoliaste e recandosi in segreto nella città e in questo posto solo per la remota possibilità di vedere lei, di vedere Elena, la più bella e seducente donna al mondo. Quante volte sono rimasto fermo dall’altra parte della via, di fronte a quell’edificio a vari piani, guardando in su come un ragazzo innamorato e aspettando che si accendessero le luci negli appartamenti e nelle terrazze in alto, augurandomi contro ogni speranza di avere anche solo una fuggevole visione di quella donna!

All’improvviso la mia pazza fantasticheria è stata infranta da una visione più agghiacciante: un cocchio sorvolava lentamente le vie e i tetti, celato agli occhi mortali, ma visibilissimo ai miei, potenziati. Dal bordo si sporgeva la mia Musa e scrutava le vie. Prima d’allora non avevo mai visto la Musa sorvolare la città o la piana di Ilio. Cercava me, lo sapevo.

In un attimo mi sono messo l’Elmo di Ade e mi sono nascosto (mi auguravo) a uomini e dèi. Di sicuro la tecnologia ha funzionato. Il cocchio della Musa mi ha sorvolato a meno di trenta metri e non ha rallentato.

Passato il cocchio, girando sulla piazza del mercato centrale, una decina di caseggiati più a est, ho azionato i pulsanti della bardatura di levitazione. Tutti gli scoliasti ce l’hanno in dotazione, ma la usano di rado. Spesso, dopo una giornata di confusa battaglia sul campo, ho usato la bardatura di levitazione per sorvolare il campo di battaglia, farmi un quadro più ampio della situazione tattica e poi volare a Ilio (qui, davanti alla casa di Elena, per essere sinceri) per qualche minuto di sguardi speranzosi, prima di telequantarmi di nuovo a Olimpo e al dormitorio.

Non stavolta. Mi sono alzato sulla via, ho sorvolato, invisibile, i lancieri di guardia all’ingresso principale della residenza di Paride e di Elena, ho superato l’alto muro e sono sceso su una balconata della corte interna, fuori delle stanze private della coppia. Col cuore che batteva all’impazzata ho varcato il vano chiuso solo da tende mosse dalla brezza. I cani della residenza forse mi avrebbero fiutato (l’Elmo di Ade non mascherava l’odore) ma erano tutti al pianterreno e nella corte esterna, non qui dove viveva la regale coppia.

Elena era nel bagno. Tre serve l’aiutavano e, scalze, lasciavano impronte umide sui gradini di marmo nel portare su e giù acqua calda alla vasca da bagno incassata nel pavimento. Tende di velo circondavano il bagno stesso, ma poiché i bracieri su tripodi e le lucerne appese si trovavano nell’interno della stanza, il sottile materiale delle tende non era d’ostacolo alla vista. Sempre invisibile, sono rimasto appena fuori del tessuto lievemente mosso dalla brezza, a fissare Elena nel bagno.

"Così sono quelle, le tette che hanno spinto in mare mille navi" ho pensato, imprecando subito contro la mia idiozia.

Vi devo descrivere Elena? Devo spiegarvi perché il calore della sua beltà, della sua nuda beltà, può smuovere uomini distanti tremila anni e più di gelido tempo?

Non credo… e non per discrezione o per decoro. La bellezza di Elena trascende le mie capacità di descrizione. Avendo visto i seni di tantissime donne, trovavo qualcosa di unico in quelli pieni e lisci di Elena? O qualcosa di più perfetto nel suo triangolo di peli scuri fra le cosce? O di più eccitante nelle cosce chiare e muscolose? O di più sorprendente nelle candide natiche e nella robusta schiena e nelle piccole spalle?

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