«Si è giunti a questo?» ha mormorato la madre di Ettore, sporgendosi a prendere tra le sue una mano insanguinata del figlio. «Si è giunti infine a questo?»
«Sì» ha detto Ettore e si è alzato faticosamente, ha preso l’elmo ed è uscito dalla stanza.
Con gli altri tre lancieri ho seguito l’esausto eroe che ha percorso a piedi i sei caseggiati fino alla residenza di Paride ed Elena, un grande complesso di nobili terrazze e torri residenziali e corti private.
Ettore ha sfiorato guardie e servi, ha salito pesantemente i gradirti e ha spalancato la porta dei quartieri privati di Paride ed Elena. Mi aspettavo quasi di vedere Paride a letto con la consorte rubata (Omero ha cantato che l’eccitata coppia era andata dritta a letto, ore prima, quando Paride era stato sottratto al confronto con Menelao); invece Paride era intento a coccolarsi la corazza e la tenuta da battaglia, mentre Elena gli sedeva accanto, dando istruzioni alle serve impegnate nel ricamo.
«Cosa cazzo fai?» ha ringhiato Ettore a Paride, più piccolo di lui. «Qui seduto come una donna, come un bamboccio piagnucoloso, a giocare con la corazza, mentre i veri uomini di Ilio muoiono a centinaia, mentre il nemico avanza intorno alla cittadella e ci assorda con grida di battaglia straniere. In piedi, figlio di puttana. In piedi, prima che Troia sia ridotta a tizzoni attorno al tuo culo di vigliacco!»
Anziché balzare in piedi, indignato, il regale Paride si è limitato a sorridere. «Ah, Ettore, merito i tuoi insulti. Niente di ciò che dici è ingiusto.»
«Allora togli di lì il culo e mettilo in quell’armatura» ha detto Ettore, brusco, ma placando all’improvviso la furia del tono, privata di forza dalla fatica o dal calmo rifiuto di Paride a difendersi.
«Certo» ha detto Paride «ma prima ascoltami. Lascia che ti dica una cosa.»
Ettore è rimasto in silenzio, barcollando lievemente sui sandali. Portava sotto il braccio sinistro l’elmo crestato e teneva stretta nella sinistra una lancia più lunga del normale, presa in prestito dal sergente del nostro piccolo gruppo di guardie. Ha usato quella lancia per tenersi dritto.
«Non me ne sto nei miei alloggi per tutto questo tempo solo perché adirato o perché offeso» ha detto Paride, con un gesto verso Elena e le sue serve, come se fossero parte del mobilio «ma perché addolorato.»
«Addolorato?» ha ripetuto Ettore. Pareva sprezzante.
«Addolorato» ha insistito Paride «per la mia codardia, oggi, anche se sono stati gli dèi, non io, a sottrarmi allo scontro con Menelao. E per il fato della nostra città.»
«Il fato non è scritto su pietra» è sbottato Ettore. «Possiamo fermare Diomede e i suoi tirapiedi resi pazzi dalla battaglia. Mettiti la corazza. Torna con me sul campo. Rimane un’ora di sole. Possiamo uccidere molti greci, nella luce sanguigna del tramonto, e altri nel fresco del crepuscolo.»
Paride ha sorriso e si è alzato. «Hai ragione. Anche per me, il più grande amante del mondo, non certo il più grande guerriero, la battaglia è la via migliore. Il fato e la vittoria ondeggiano, sai, Ettore, ora da una parte, ora dall’altra, come una fila di uomini senza armatura sotto una grandinata di frecce nemiche.»
Ettore si è messo l’elmo e ha aspettato in silenzio, chiaramente non fidandosi che Paride mantenesse la promessa di scendere in campo.
«Vai avanti» ha detto Paride. «Devo indossare tutta l’armatura. Vai, ti raggiungo.»
Ettore è rimasto ancora in silenzio, restio ad andare senza Paride, ma la bella Elena (era davvero bella) si è alzata dalla sedia e ha attraversato la stanza per toccare il braccio di Ettore, rigato di sangue. Con i sandali non ha fatto rumore, sul pavimento di freddo marmo.
«Mio caro amico» ha detto, con voce tremula d’emozione «mio caro fratello, caro a me… per quanto sia una cagna, per quanto sia una puttana depravata e intrigante, femmineo orrore da gelare il sangue… oh, quanto vorrei che mia madre m’avesse annegata nel nero mar Ionio, il giorno in cui nacqui, anziché essere la causa di tutto questo.» Si è interrotta, ha tolto la mano dal braccio di Ettore e ha cominciato a piangere.
Il nobile Ettore ha battuto le palpebre a questa scena, ha alzato la mano libera come per toccare i capelli di Elena, l’ha ritratta subito e si è schiarito la gola, imbarazzato. Come tantissimi eroi, il grande Ettore era impacciato con le donne, moglie esclusa. Prima che potesse parlare, Elena ha continuato, sempre piangendo, con parole smozzicate fra strazianti singhiozzi.
«Oh, nobile Ettore, se gli dèi hanno davvero ordinato per colpa mia tutti questi terribili anni di spargimento di sangue, vorrei essere stata la moglie di un uomo migliore… un guerriero anziché un amatore, un uomo con la volontà di fare per Ilio qualcosa di più che portarsi a letto la moglie nel lungo meriggio del tragico fato della sua città.»
Paride allora ha mosso un passo verso Elena, come per darle uno schiaffo, ma si è trattenuto perché lei era troppo vicino a Ettore. Noi fanti accanto alla parete siamo rimasti a fissare il vuoto e a fingere di non avere orecchie.
Elena ha guardato Paride. Aveva occhi rossi e gonfi. Ha parlato ancora a Ettore come se Paride, colui che l’aveva rapita e suo secondo marito putativo, non fosse nella stanza. «Questo… qui… si è guadagnato il bruciante disprezzo di veri uomini. Non ha fermezza di spirito, non ha coraggio. Né ora né… mai.»
Paride, sorpreso, è arrossito come se l’avessero schiaffeggiato.
«Ma mieterà i frutti della sua vigliaccheria, Ettore» ha continuato Elena, sputando ora le parole, alla lettera, schizzando di saliva il pavimento di marmo. «Ti giuro che mieterà i frutti della sua debolezza. Per gli dèi, te lo giuro.»
Paride è uscito a grandi passi dalla stanza.
Elena si è rivolta al guerriero in piedi, sporco di sangue e di sudore. «Vieni sul divano e riposa accanto a me, caro fratello. Sei quello colpito più duramente da questi combattimenti… e tutto per me, Ettore, per una puttana.» Si è seduta sul divano imbottito e ha battuto la mano accanto a sé. «Noi due siamo legati in questo fato, Ettore. Zeus ha piantato, nel tuo petto e nel mio, il seme d’un milione di morti, della rovina della nostra epoca. Mio caro Ettore, siamo mortali. Moriremo entrambi. Ma tu e io vivremo per mille generazioni nella poesia…»
Come restio ad ascoltare altro, Ettore ha girato sui tacchi e ha lasciato la stanza, mettendosi l’elmo che ha mandato barbagli nei raggi inclinati del sole al tramonto.
Ho guardato un’ultima volta Elena lì seduta, a testa china, sui cuscini del divano, notando le perfette, candide braccia e la morbidezza del seno che traspariva sotto la sottile veste; ho preso la lancia — la lancia dell’esploratore Dolone — e ho seguito Ettore e i suoi tre fedeli lancieri.
È importante che lo racconti a questo modo. Elena si agita, mormora il mio nome, ma riprende a dormire. Il mio nome! Bisbiglia: «Hock-en-bear-eeee» ed è come se una lancia mi trafiggesse il cuore.
E ora, disteso a fianco della più bella donna del mondo antico e forse della storia — o almeno della donna che ha fatto morire in nome suo il maggior numero di uomini — ricordo altri particolari della mia vita precedente. Della mia vera vita.
Ero sposato. Mia moglie si chiamava Susan. Ci eravamo conosciuti da studenti al Boston College, ci siamo sposati poco dopo la laurea. Susan era assistente scolastica in un liceo, ma non aveva lavorato molto dopo che ci eravamo trasferiti nell’Indiana, dove nel 1972 avevo iniziato a insegnare letteratura classica all’università DePauw. Non avevamo figli, ma non perché non ci provassimo. Susan era ancora viva, quando mi ero ammalato di tumore al fegato ed ero stato ricoverato in ospedale.
"Perché, in nome di Dio, ricordo questi particolari proprio ora?" penso. "Dopo nove anni quasi senza memorie personali, perché ricordo Susan proprio ora? Perché proprio ora subisco sferzate e maledizioni dalle frastagliate schegge della vita precedente?"
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