"E me stesso" pensò, anche se separarsi dal Dark Lady non gli pareva libertà. I criorobot che lavoravano in profondità nel mare di Europa avevano sempre avuto in sé il nocciolo dell’agorafobia, un vero terrore degli spazi aperti, e i moravec, che da essi si erano evoluti, l’avevano ereditato. Il secondo giorno, dopo l’ottava partita a scacchi, Orphu disse: «Il Dark Lady ha una sorta di congegno di salvataggio, no?».
Mahnmut si era augurato che Orphu non fosse a conoscenza di quel particolare. «Già» ammise con riluttanza. «Di che tipo?»
«Una piccola bolla di salvataggio» rispose Mahnmut, di cattivo umore perché doveva parlarne. «Poco più grande di me. Fatta soprattutto per tenermi in vita a grande profondità e per riportarmi in superficie.»
«Ha un radiofaro, un supporto vita, qualche sistema propulsivo e di navigazione? Una provvista di acqua e di cibo?»
«Sì, e allora?» disse Mahnmut. E pensò: "Tu lì dentro non ci stai e con quella non potrei rimorchiarti".
«Niente» rispose Orphu.
«Odio l’idea di lasciare il Dark Lady » disse Mahnmut, sincero. «E non devo pensarci, adesso. Né per giorni e giorni.»
«Va bene» disse Orphu.
«Parlo sul serio.»
«Va bene, va bene, Mahnmut. Ero solo curioso.»
Se Orphu in quel momento avesse riso, divertito, Mahnmut sarebbe strisciato nella bolla di salvataggio e se ne sarebbe andato. Era furioso col moravec perché aveva sollevato quell’argomento. «Vuoi fare un’altra partita?»
«Non in questa vita» disse Orphu.
Sessantuno ore dopo l’ammaraggio, un solo cocchio compariva sul radar, ma girava in tondo proprio in quella zona, otto chilometri sopra di loro e dieci più a nord. Mahnmut ritirò con la massima rapidità il gavitello periscopico.
Si mise ad ascoltare musica sull’intercom (Brahms) e Orphu, giù nella stiva allagata, probabilmente faceva la stessa cosa.
All’improvviso il moravec di Io disse: «Mahnmut, ti sei mai chiesto perché tutt’e due siamo umanisti?».
«Che vuoi dire?»
«Lo sai, studiosi dei classici. Tutti i moravec si sono evoluti o in umanisti come noi, con il nostro bizzarro interesse per la vecchia razza umana, o in tipi più interattivi come Koros III. Sono quelli che forgiano le società moravec, il Consorzio delle Cinque Lune, i partiti politici… ogni cosa.»
«Non me ne sono mai accorto» disse Mahnmut.
«Mi prendi in giro.»
Mahnmut rimase in silenzio. Cominciava a capire che in quasi un secolo e mezzo d’esistenza era riuscito a restare all’oscuro di quasi tutto ciò che aveva importanza. Conosceva solo i freddi mari di Europa, che non avrebbe più rivisto, e il suo sommergibile, che fra poco, ore o giorni, avrebbe cessato di esistere come entità funzionante. Questo e i sonetti e le opere teatrali di Shakespeare.
Riuscì a stento a non mettersi a ridere. "Cosa potrebbe esserci di più inutile?" pensò.
Come se gli leggesse nella mente, Orphu continuò: «Cosa direbbe il Bardo di questa situazione?».
Mahnmut intanto controllava i consumi. Non potevano aspettare le settantatré ore previste. Dovevano disincagliarsi entro le sei successive. E anche allora, se non riuscivano a liberarsi subito, il reattore poteva bloccarsi del tutto, sovraccaricarsi e…
«Mahnmut?»
«Scusa. Mi ero appisolato. Cosa dicevi del Bardo?»
«Di sicuro ha parlato di naufragi» spiegò Orphu. «Se ben ricordo, ce n’è un mucchio, nelle sue opere.»
«Oh, sì. Un mucchio di naufragi. La dodicesima notte , La tempesta , l’elenco è lungo. Ma non credo che ci sia qualcosa che possa aiutarci.»
«Parlami di quei naufragi.»
Mahnmut scosse la testa. Sapeva che Orphu cercava solo di distrarlo. «Parlami del tuo amato Proust» disse. «Il Marcel narrante dice qualcosa sullo sperdersi su Marte?»
«Be’, in realtà, sì» rispose Orphu, con una lievissima traccia di risata.
«Scherzi.»
«Non scherzo mai sulla Ricerca » replicò Orphu, in un tono che quasi convinse Mahnmut (non del tutto, però) che il moravec fosse serio.
«D’accordo, sentiamo allora cosa dice Proust sulla sopravvivenza su Marte» replicò Mahnmut. Fra cinque minuti avrebbe alzato di nuovo il periscopio e sarebbe salito comunque in superficie anche se il cocchio si fosse librato dieci metri sulla sua testa.
«Nel terzo volume dell’edizione francese, il quinto nella traduzione inglese che ho scaricato per te, Marcel dice che, se all’improvviso ci trovassimo su Marte e ci facessimo crescere un paio d’ali e un nuovo apparato respiratorio, non ci distrarremmo. Continueremmo a usare i nostri sensi e questi rivestirebbero dello stesso aspetto delle cose della Terra tutto quello che potremmo vedere.»
«Scherzi» disse Mahnmut.
«Non scherzo mai sulle percezioni del personaggio Marcel nella Ricerca » ripeté Orphu, in un tono che disse a Mahnmut che gli piaceva scherzare, d’accordo, ma non su quel particolare bizzarro riferimento a Marte. «Non hai letto le edizioni che ti ho mandato all’inizio del viaggio all’interno del sistema solare?»
«Le ho lette» rispose Mahnmut. «Davvero. Solo ho, come dire, saltato l’ultimo paio di migliaia di pagine.»
«Be’, non è insolito. Senti, c’è un brano che viene dopo la crescita di ali e di nuovi polmoni su Marte. Lo vuoi in francese o in inglese?»
«Inglese» rispose subito Mahnmut. Prossimo a un’orribile morte per asfissia, preferiva fare a meno dell’ulteriore tortura di un brano letto in francese.
«"L’unico vero viaggio, l’unico bagno di giovinezza"» recitò Orphu «"sarebbe non andare verso nuovi paesaggi, ma avere altri occhi, vedere l’universo con gli occhi di un altro, di cento altri, vedere i cento universi che ciascuno vede, che ciascuno è."»
Per un minuto Mahnmut dimenticò davvero la prospettiva di morire asfissiato, mentre rifletteva sul brano. «Questa è la quarta e ultima risposta di Marcel all’enigma della vita, vero, Orphu?»
Il moravec di Io rimase in silenzio.
«Cioè» continuò Mahnmut «tu hai detto che per Marcel le prime tre fallirono. Lui provò a credere nello snobismo. Provò a credere nell’amicizia e nell’amore. Provò a credere nell’arte. Nessuna funzionò come tema trascendente. Perciò questa è la quarta. Questa…» Non riuscì a trovare le parole giuste.
«Coscienza che sfugge ai limiti della coscienza» disse piano Orphu. «Immaginazione che vince i legami dell’immaginazione.»
«Sì» alitò Mahnmut. «Vedo.»
«Devi» disse Orphu. «Ora sei i miei occhi. Devo vedere l’universo attraverso i tuoi occhi.»
Mahnmut rimase per un minuto in silenzio nel sibilo del tubicino di O 2. Poi disse: «Cerchiamo di portare su il Dark Lady » .
«Gavitello periscopico?»
«Al diavolo anche loro, se sono là ad aspettarci. Preferisco morire combattendo che soffocare quaggiù nel fango.»
«D’accordo» convenne Orphu. «Hai detto "cerchiamo" di portare su il Dark Lady. Hai qualche dubbio di riuscire a tirarci fuori dal fango?»
«Non ho un cazzo d’idea se sarà possibile liberarci da questa merda» rispose Mahnmut; azionò con la mente interruttori virtuali, diede energia al reattore fino a surriscaldarlo, armò i propulsori. «Ma ce la metteremo tutta, nel tentativo, fra… diciotto secondi. Tieniti forte, amico mio.»
«Poiché non ho più rampini, manipolatori e flagelli, immagino che sia un’esortazione retorica.»
«Usa i denti!» replicò Mahnmut. «Sei secondi.»
«Sono un moravec» replicò Orphu, in tono leggermente indignato. «Non ho denti. Cosa pensavi che…»
All’improvviso la linea intercom fu soffocata dall’accensione di tutti i propulsori, dal rimbombo di paratie che si crepavano e cedevano e da un grande gemito, mentre il Dark Lady lottava per staccarsi dalla fangosa presa di Marte.
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