«Certo, il rischio c’è» confermò Orphu. Accese i pesanti propulsori a ioni.
Mahnmut fu premuto nella cuccetta antiaccelerazione per trenta secondi e poi rilasciato, mentre rumore e vibrazioni cessavano. Sentì il forte colpo, quando l’anello di controllo dell’assetto fu espulso nello spazio.
Una palla di fuoco passò davanti alla telecamera di prua, anche se quella mostrava ora la vista alle loro spalle, mentre entravano di poppa nell’atmosfera. «Siamo decisamente nell’atmosfera» disse Mahnmut, notando che la sua voce non era calma come prima. Non era mai stato in una vera atmosfera planetaria e l’idea di tutte quelle molecole a stretto contatto aggiungeva disgusto alla nausea. «Il gruppo di propulsori espulso è passato al calor bianco ed è appena esploso in fiamme. La poppa comincia a surriscaldarsi. Anche il gruppo propulsore principale di prua, ma un po’ meno. La maggior parte del calore e dell’onda d’urto sembrano trovarsi intorno al nostro culo. Uau! Ci lasciamo indietro una parte del campo di detriti, ma davanti a noi brucia tutto. È come se ci trovassimo in una gigantesca tempesta di meteoriti.»
«Bene» disse Orphu. «Tieniti forte.»
Quella che era stata la nave spaziale moravec colpì la densa atmosfera marziana proprio come Mahnmut aveva descritto a Orphu: una tempesta di meteore i cui pezzi più grossi pesavano varie tonnellate e avevano un diametro di decine di metri. Un centinaio di palle di fuoco descrisse archi nel cielo azzurro chiaro di Marte e un tamburellare di cupi bang sonici ruppe il silenzio dell’emisfero nord. Le palle di fuoco attraversarono la calotta polare settentrionale come uccelli ardenti e continuarono a sud sul mare Tethys, lasciando al passaggio lunghe scie di vapori di plasma. Davano la bizzarra impressione di volare, non di precipitare.
Solo alcuni millenni prima, Marte vantava una trascurabile atmosfera in gran parte di anidride carbonica, pari a 8 millibar, a confronto dei 1014 millibar terrestri di pressione al livello del mare. In meno di un secolo, tramite un procedimento incomprensibile ai moravec, il pianeta era stato terraformato e aveva 840 millibar d’aria respirabile.
Le palle di fuoco striarono il cielo a nord, in una sorta di formazione alla buona, lasciandosi in scia impronte di bang sonico. Alcuni pezzi più piccoli (abbastanza grandi da sopravvivere all’ardente ingresso nell’atmosfera, ma tanto piccoli da essere deviati dall’aria densa) cominciarono a cadere in mare, sollevando schizzi, a circa ottocento chilometri a sud del polo. Chi avesse guardato dallo spazio, avrebbe avuto l’impressione che un dio scagliasse nell’oceano settentrionale marziano una raffica di enormi proiettili di mitragliatrice… salve di traccianti.
Uno di quei traccianti era il Dark Lady . Il materiale di rivestimento antiradar intorno alla poppa e a due terzi dello scafo si staccò in fiamme e si unì alla scia di plasma grondante dietro il sommergibile che precipitava. Antenne e sensori esterni bruciarono. Poi lo scafo cominciò ad annerirsi e scheggiarsi e sfaldarsi.
«Ah…» disse Mahnmut, dalla cuccetta antiaccelerazione «non sarebbe ora di aprire i paracadute?» Conosceva abbastanza il piano di Koros per sapere che i paracadute in fibra di buckycarbonio si sarebbero dovuti aprire intorno ai quindicimila metri, per una discesa morbida nell’oceano. L’ultima occhiata alla distesa d’acqua, prima che i sistemi ottici di prua bruciassero, l’aveva convinto che erano molto più in basso di quindicimila metri e che scendevano ad altissima velocità.
«Non ancora» borbottò Orphu. Il moravec di Io non aveva cuccetta anti-g nella stiva e pareva impegnato a resistere alla forza di gravità della decelerazione. «Usa il radar per calcolare la nostra quota.»
«Il radar è andato» disse Mahnmut.
«Il sonar funziona?»
«Ora provo.» A sorpresa, il sonar funzionava e mostrò un ritorno di solida… be’, liquida… superficie acquea a distanza di 8200 metri, 8000 metri, 7800 metri. Mahnmut girò i dati a Orphu. «Apriamo i paracadute?»
«Gli altri detriti non hanno paracadute.»
«E allora?»
«Vuoi davvero scendere appeso a un ombrellone che ci mostri a tutti i sensori?»
«Sensori di chi?» replicò, brusco, Mahnmut, ma capì a che cosa Orphu si riferiva. Tuttavia… «Cinquemila metri» disse. «Velocità tremiladuecento chilometri all’ora. Vuoi davvero colpire l’acqua a questa velocità?»
«Non direi. Anche sopravvivendo all’impatto, ci troveremmo sepolti sotto centinaia di metri di sedimenti. Non avevi detto che l’oceano settentrionale è profondo solo qualche centinaio di metri?»
«Sì.»
«Adesso giro il tuo sommergibile.»
«Cosa?» scattò Mahnmut, ma poi udì l’accensione del pesante gruppo di propulsori, solo qualche razzo, e i giroscopi ronzarono, anche se il rumore era più un macinio che un ronzio.
Il Dark Lady cominciò un doloroso capitombolo, portando avanti la prua. Vento e attrito tormentarono lo scafo, strapparono gli ultimi sensori a mezza nave, squarciarono una decina di compartimenti. Mahnmut spense gli allarmi.
Adesso che erano a prua in avanti, una delle ultime telecamere ancora in funzione mostrò spruzzi nell’oceano, se "spruzzi" si possono chiamare i pennacchi d’impatto di vapore e plasma da duemila metri di altezza. Mahnmut immaginò che sarebbe stato il loro turno nel giro di pochi secondi. Descrisse a Orphu gli impatti e soggiunse: «Paracadute? Per favore?».
«No» disse Orphu e accese i propulsori principali che avrebbe dovuto sganciare in orbita.
La forza di decelerazione scagliò Mahnmut in avanti contro le cinghie e lo indusse a rimpiangere il gel antiaccelerazione che avevano usato nella manovra a fionda nel tubo di flusso di Io. Altre colonne di vapore si alzarono intorno al sommergibile in caduta, come colonne corinzie che passassero a grande velocità, e l’oceano riempì i monitor. I propulsori rombarono, ruotarono e rallentarono la velocità del sommergibile. Non appena si spensero, il gruppo anulare si sganciò e volò via. Mahnmut calcolò che erano a soli mille metri sull’oceano e la distesa d’acqua gli parve solida come quella di ghiaccio su Europa.
«Para…» cominciò Mahnmut, gemendo ora apertamente, senza vergogna.
I due enormi paracadute si schiusero. La visione di Mahnmut divenne rossa, poi nera.
Colpirono il mare Tethys.
«Orphu? Orphu?» Mahnmut, nel buio e nel silenzio, cercò di riportare in linea l’alimentazione dati. La nicchia ambientale era intatta, l’O 2affluiva ancora. Sorprendente. Secondo il suo orologio interno, dal momento dell’impatto erano trascorsi tre minuti. La velocità era zero. «Orphu?»
«Arugghh» fu la risposta che gli giunse via cavo. «Ogni volta che mi addormento, tu mi svegli.»
«Come stai?»
«Dove sto, sarebbe la domanda giusta» rombò Orphu. «Mi sono staccato dalla nicchia. Non sono neppure sicuro di trovarmi ancora sul Dark Lady. Se ci sono, lo scafo si è squarciato. Sono a mollo. Acqua salata. Aspetta, forse me la sono solo fatta addosso.»
«Sei sempre collegato via cavo» disse Mahnmut, trascurando l’ultimo commento. «Probabilmente sei ancora nella stiva. Ricevo qualche dato dal sonar. Siamo nella fanghiglia del fondo, ma sotto uno strato di un metro appena, a circa ottanta metri dalla superficie.»
«Mi domando in quanti pezzi sono» disse Orphu.
«Sta’ lì» disse Mahnmut. «Ora mi stacco e vengo giù a prenderti. Non ti muovere.»
Orphu rise. «Come faccio a muovermi, amico mio? Tutti i miei manipolatori e i flagelli se ne sono andati in quel grosso paradiso moravec che c’è nei cieli. Sono un granchio senza chele. E ho anche qualche dubbio sul guscio. Mahnmut… un momento!»
«Cosa c’è?» Si era liberato delle cinghie e si stava togliendo tubicini e cavi di controllo virtuale.
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