«Ho letto che un tempo i servitori avevano la forma di esseri umani…» cominciò Harman.
«No» disse Savi. «Questi non sono robot. Sono solo manichini.»
«Cosa?» esclamò Daeman.
Savi spiegò cos’era un manichino.
«Sai chi dovrebbero rappresentare?» chiese Hannah. «O perché si trovano qui?»
«No» rispose Savi. Rimase da parte, mentre gli altri guardavano in giro.
In fondo alla sala, sistemato in una nicchia di vetro come nel posto più importante, c’era un uomo accomodato in una ornata sedia di legno e di strisce di cuoio. Anche vedendola seduta, era chiaro che quella figura era più bassa di gran parte dei manichini nella sala e vestita di una sorta di runica tanè che pareva una corta veste di cotone grezzo o di lana, stretta in vita da una cintura. Ai piedi, aveva un paio di sandali. L’uomo sarebbe potuto sembrare buffo, ma i suoi tratti (corti capelli ricci e grigi, naso a becco, fieri occhi grigi che fissavano arditamente da sotto folte sopracciglia) erano così energici che Ada si ritrovò ad avvicinarsi con cautela. Le braccia dell’uomo mostravano muscoli sodi e un mucchio di cicatrici, le dita tozze erano piegate con disinvoltura, ma strette sui braccioli di legno della sedia da campo: tutto, nella figura scolpita, dava una tale impressione di forza pronta a scattare (forza di volontà, oltre che fisica) che Ada arretrò di almeno due metri. L’uomo era chiaramente più vecchio di quanto le persone decidessero di sembrare nella loro epoca attuale, un punto intermedio fra la seconda Ventina di Harman e la vecchiaia di Savi. La tunica era tanto scollata che Ada scorgeva i peli brizzolati sul petto ampio e abbronzato.
Daeman si avvicinò subito. «Conosco quest’uomo» disse, indicandolo. «L’ho già visto.»
«Nel dramma del lino» confermò Hannah.
«Sì, sì» ribadì Daeman. Schioccò le dita, sforzandosi di ricordare. «Si chiama…»
«Odisseo» disse l’uomo sulla sedia. Si alzò e mosse un passo verso il sorpreso Daeman. «Odisseo, figlio di Laerte.»
«Si stabilizza» trasmise Mahnmut a Orphu via cavo. «Ritmo di rollio, una rivoluzione ogni tre secondi circa. Beccheggio e imbardata prossimi allo zero.»
«Cercherò di eliminare il rollio» disse Orphu. «Avvisami quando hai nel reticolo la calotta polare.»
«D’accordo, no… scarroccia. Maledizione. Che casino.» Cercava di allineare la barra dell’alimentazione video e la bianca sbavatura della calotta polare marziana, in una tempesta di detriti ruzzolanti e di plasma ancora ardente.
«Sì» disse Orphu dalla stiva «sono tutto un casino.»
«Non mi riferivo a te.»
«Lo so. Ma sono un casino lo stesso. Darei metà della mia biblioteca proustiana per riavere uno solo dei miei sei occhi.»
«Ti allacceremo a un alimentatore visuale» disse Mahnmut. «Oh, diavolo. Ruzzoliamo di nuovo.»
«Lascia che ruzzoli fino al momento dell’ingresso nell’atmosfera» disse Orphu. «Risparmiamo il combustibile dei propulsori ed energia. E, no, lasciamo perdere il collegamento visuale. Ho fatto un controllo danni, dopo che mi hai infilato qui, e non ho perduto solo gli occhi e le telecamere. Guardavo verso prua, quando la nave è stata colpita e il bagliore mi ha bruciato tutti i canali fino al livello organico. I miei nervi ottici interni sono cenere.»
«Mi spiace» disse Mahnmut. Aveva la nausea e non solo per i continui capitomboli. Dopo un minuto, soggiunse: «Siamo ben sotto il livello di guardia per qualsiasi cosa che si consumi… acqua, aria, combustìbile dei jet. Sei sicuro di voler stare dentro questo campo di detriti?».
«È l’alternativa migliore che abbiamo» rispose Orphu. «Sul radar siamo solo un altro pezzo della nave spaziale distrutta.»
«Radar?» si stupì Mahnmut. «Ma non hai visto cosa ci ha attaccato? Un dannatissimo cocchio! Pensi che un cocchio abbia il radar?»
Orphu rise. «Pensi che un cocchio possa scagliare una lancia d’energia come quella che ha vaporizzato un terzo della nave, compresi Koros e Ri Po? Sì, Mahnmut, ho visto il cocchio, è l’ultima cosa che mi è stato concesso di vedere. Ma non credo nemmeno per un secondo che fosse realmente un cocchio guidato nel vuoto dello spazio da un uomo e una donna più grandi del normale. No, no. Troppo ingegnoso… di gran lunga troppo ingegnoso.»
Mahnmut non trovò niente da replicare. Rimpianse che Orphu non avesse eliminato il rollio (il sommergibile beccheggiava e imbardava di nuovo) ma ogni altra cosa nel campo di detriti ruzzolava, perciò era sensato che anche loro si conformassero.
«Vuoi parlare dei sonetti di Shakespeare?» chiese Orphu di Io.
«Mi prendi per il culo?» I moravec amavano le antiche espressioni colloquiali umane, in particolare quelle scatologiche.
«Sì» rispose Orphu. «Ti sto decisamente prendendo per il culo, amico mio.»
«Aspetta, aspetta» disse Mahnmut. «I detriti cominciano a diventare incandescenti. E noi pure. Ci ionizziamo.» Fu contento d’avere parlato in tono normale. Davanti a loro, i pezzi più grossi della nave spaziale distrutta cominciavano a brillare di un color rosso cupo. Anche la prua del Dark Lady cominciava a diventare incandescente. I sensori esterni del sottomarino segnalarono l’aumento della temperatura dello scafo. Entravano nell’atmosfera di Marte.
«È il momento di rimetterci in assetto» disse Orphu, che riceveva i dati ritrasmessi nello scafo del sommergibile e faceva il possibile con lo scarico parziale dei comandi di Koros. Accese i propulsori fissati al sommergibile e riallineò i giroscopi. «Il rollio è finito?»
«Non del tutto.»
«Non possiamo aspettare. Sto per girare questo mucchio di ferraglia, prima che bruci tutto.»
«Questo "mucchio di ferraglia" si chiama The Dark Lady e potrebbe salvarci la vita» replicò freddamente Mahnmut.
«Certo, certo» disse Orphu. «Dimmi quando la barra nel monitor video di poppa è centrata sul lembo di Marte sopra il polo. Poi comincerò a eliminare il rollio. Dio, quanto darei per riavere uno solo dei miei occhi! Scusa, non lo dirò mai più.»
Mahnmut guardò il monitor. A causa della nube di detriti che si espandeva, gli unici calcoli attendibili della loro posizione fatti per Orphu negli ultimi trenta minuti erano basati su Marte stesso. Anche le due piccole lune erano invisibili. Ora i propulsori emisero un rumore sordo e il sottomarino ruotò lentamente; la telecamera di prua perse il contatto con Marte e mostrò plasma ardente, metallo fuso al calor bianco e milioni di schegge lucenti che erano state la loro nave spaziale e i loro compagni di viaggio.
La massa di Marte, arancione-rossa-marrone-verde, riempì la telecamera di poppa e il segno che Orphu aveva detto di tracciare sul monitor si spostò verso l’alto, ancora in alto, incrociò la linea costiera chiazzata di nubi, mostrò mare blu, poi bianco…
«Calotta polare» riferì Mahnmut. «Ecco il lembo superiore.»
«Bene» disse Orphu. Tutti i propulsori pulsarono. «Ora vedi il polo nella telecamera di poppa?»
«No.»
«Qualche stella nota?»
«No. Solo altra ionizzazione dello scafo.»
«Abbastanza vicino per manovrare» disse il moravec di Io. «Ora uso l’anello di propulsori di prua come razzi di frenata.»
«Koros III avrebbe usato i grossi jet di prua per rallentarci nella discesa, poi li avrebbe espulsi prima di entrare nell’atmosfera» disse Mahnmut. La prua mandava ora un bagliore rosso più scuro.
«Tengo accesi i propulsori più pesanti, entrando nell’atmosfera.»
«Perché?»
«Vedrai.»
«Non è possibile che i propulsori esplodano per il calore durante il rientro?»
«È possibile.»
«Siamo abbastanza rovinati» disse Mahnmut. «C’è il rischio che ci spezziamo, mentre ’sti affari bruciano staccandosi dallo scafo?»
Читать дальше