Ada era abile a stimare le dimensioni e calcolò che la campata principale del ponte fosse lunga più di un chilometro, anche se il piano stradale era rotto in una ventina di punti e lasciava vedere l’armatura di tondo di ferro arrugginito e spazi vuoti.
Calcolò che le due torri (ciascuna mostrava tracce di antica vernice arancione, ma soprattutto di ruggine) fossero alte più di ducento metri e le sommità si trovavano più in alto delle montagne ai lati. Le doppie torri erano verdi per quella che da lontano pareva edera, ma quando il sonie volteggiò più vicino, Ada vide che quella "vegetazione" era artificiale: bolle verdi e scalinate e pezzi di materiale flessibile simile a vetro avvolgevano le torri, erano collegati ai pesanti cavi di sospensione, ricadevano perfino sui cavi di sostegno e penzolavano liberamente sul piano stradale dissestato. Nubi scendevano dagli alti picchi e si mischiavano alla nebbia che saliva dai profondi canyon sotto le rovine in cima all’altura, si arricciava e turbinava intorno alla torre sud, oscurava il piano stradale e i cavi sospesi.
«Questo posto ha un nome?» chiese Ada.
«Il Golden Gate a Machu Picchu» disse Savi e toccò i comandi per avvicinarsi.
«Cosa significa?» chiese Daeman.
«Non ne ho idea.»
Il sonie girò intorno alla torre nord — arancione opaco e rosso ruggine nella vivida luce del sole al di là delle nubi — si librò lentamente, con prudenza, sulla sua cima e vi si posò senza rumore.
Il campo di forza si estinse. Savi annuì e tutti scesero dal sonie, si stiracchiarono, si guardarono intorno. L’aria era fredda e molto rarefatta.
Daeman andò sul bordo rugginoso della torre e si sporse a guardare. Nato e cresciuto a Cratere Parigi, non aveva paura delle altezze.
«Eviterei di cadere, se fossi in te» disse Savi. «Qui non c’è la squadra di salvataggio dello spedale. Se muori lontano dai nodi fax, resti morto.»
Daeman arretrò di scatto, rischiando di cadere per la fretta di allontanarsi dal bordo. «Che diavolo dici?»
«Esattamente ciò che ho detto» rispose Savi, mettendosi sulla spalla destra lo zaino. «Qui non c’è lo spedale. Cerca di stare vivo, finché non torni a casa.»
Ada guardò verso il cielo, dove tutti e due gli anelli erano visibili in alto nel cielo azzurro. «Credevo che i post-umani potessero faxarci da qualsiasi punto, se ci… mettevamo nei guai.»
«Agli anelli» disse Savi, in tono piatto. «Dove lo spedale ti guarisce.»
«Sì» confermò debolmente Ada.
Savi scosse la testa. «Non c’è spedale, negli anelli. E non sono i post a faxarti, quando ti accade qualcosa di male, e a ricostruirti. È tutto un mito. Propaganda. O, per essere meno eleganti… stronzate.»
Harman aprì bocca, ma Daeman lo batté sul tempo. «Io ci sono appena stato» protestò. «Nello spedale. Negli anelli.»
«Nello spedale, sì» disse Savi «ma non negli anelli. Non sei stato guarito da post-umani. Se quelli sono lassù, se ne fregano di voi. E non credo che ci siano ancora, lassù.»
I quattro rimasero sulla cima rugginosa della torre, più di centocinquanta metri sopra il piano stradale dissestato, duecentocinquanta sopra la sella erbosa e le rovine di pietra. Il vento dagli alti picchi li schiaffeggiava e scompigliava loro i capelli.
«Dopo la nostra ultima Ventina, saliamo a unirci ai post…» iniziò Hannah, con voce flebile.
Savi rise e li guidò a un irregolare globulo di vetro che spuntava sulla parte ovest della cima dell’antica torre.
C’erano sale e anticamere e rampe di scalini e scale mobili bloccate e stanze più piccole che davano nelle sale principali. Ada trovò strano che il cielo e le torri arancione e i cavi sospesi e la giungla e il piano stradale intravisti in basso non apparissero tinteggiati di verde, visti attraverso il materiale simile a vetro, e che neppure la luce del sole diventasse verde: quel vetro verde in qualche modo lasciava passare intatti i colori.
Savi li guidò giù lungo un percorso circolare, da un verde modulo all’altro, da un lato della torre biforcata a un altro, attraverso sottili tubi che avrebbero dovuto dondolare nel forte vento e che invece non si muovevano. Alcune sale sporgevano di dieci o dodici metri dalla torre e Ada non aveva idea di come il globulo verde fosse attaccato al cemento e all’acciaio.
Alcune stanze erano vuote. Altre contenevano… manufatti. In una stanza, una serie di scheletri d’animale si stagliava contro il profilo della montagna. In un’altra, quelle che parevano copie di macchine erano disposte in fila su banchi da esposizione o appese a cavi. In un’altra ancora, cubi di plexiglas contenevano feti di un centinaio di creature, nessuna propriamente umana, ma alcune tanto simili all’uomo da lasciare turbati. In un’altra stanza, sbiaditi ologrammi di distese stellari e di anelli si muovevano sopra e attraverso gli spettatori.
«Cos’è questo posto?» domandò Harman.
«Una sorta di museo» rispose Savi. «Penso però che manchi gran parte degli esemplari più importanti.»
«Creato da chi?» chiese Hannah.
Savi si strinse nelle spalle. «Non dai post, penso. Non lo so. Ma sono abbastanza sicura che il ponte — o, almeno, l’originale, perché questo potrebbe essere una copia — una volta si trovava nelle vicinanze di una città dell’Età Perduta, su quella che era la costa occidentale del continente a nord di qui. Hai mai sentito parlare di un simile ponte, Harman?»
«No.»
«Forse l’ho sognato» disse Savi, con una mesta risatina. «La memoria mi fa qualche scherzo, dopo tutti questi secoli di sonno.»
«Hai già accennato al fatto d’avere dormito per secoli» disse Daeman, in un tono che a Ada parve brusco. «Che storia è?»
Savi li aveva guidati per una lunga scala a chiocciola nel tubo di vetro verde collegato fra i cavi di sospensione e ora indicò una fila di quelle che parevano bare di cristallo. «Una forma di criosonno» disse. «Ma non a bassissima temperatura… che è sciocco, perché "freddo" è proprio ciò che la parola "crio" significava in origine. Alcuni di questi bozzoli funzionano ancora, bloccano ancora il moto molecolare. Non mediante il freddo, ma mediante una microtecnologia che si alimenta dal ponte.»
«Dal ponte?» ripeté Ada, stupita.
«L’intera struttura è un ricevitore d’energia solare» spiegò Savi. «Almeno, le parti verdi.»
Ada guardò le impolverate bare di cristallo e provò a immaginare di addormentarsi in una di esse e aspettare… cosa? Anni, prima del risveglio? Decenni? Secoli? Rabbrividì.
Si accorse che Savi la stava guardando e arrossì. Ma Savi le sorrise. Uno dei suoi sorrisi sinceramente divertiti, pensò Ada.
Risalirono un lungo cilindro di vetro verde appeso a uno sfilacciato e arrugginito cavo di supporto il cui diametro superava l’altezza di Harman. Ada si ritrovò a camminare in punta di piedi, cercando di sollevare il proprio peso mediante la pura e semplice forza di volontà, timorosa che il peso di tutti insieme facesse precipitare il cilindro, il cavo, il ponte intero. Notò che Savi la guardava di nuovo. Stavolta non arrossì, ma corrugò la fronte, stufa dell’attento esame cui Savi la sottoponeva.
Si fermarono tutti un minuto, allarmati. Erano entrati, pareva, in un’affollata sala riunioni: gente in piedi lungo le pareti, uomini e donne in abbigliamento bizzarro, persone sedute alla scrivania o in piedi davanti a un quadro di comando, individui che non si mossero né girarono lo sguardo verso i nuovi venuti.
«Non sono reali» disse Daeman; si diresse verso l’uomo più vicino (vestito con un completo azzurro polvere e una sorta di tessuto intorno alla gola) e gli toccò il viso.
Passarono di figura in figura, fissando uomini e donne in abiti bizzarri, con curiose acconciature e insoliti ornamenti personali: tatuaggi, strani monili, capelli e pelle colorati.
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