Dan Simmons - Ilium

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Attenzione! Thomas Hockenberry è stato un insegnante universitario di storia, con una vita assolutamente normale. Per quale motivo, allora, si trova adesso ad assistere alla Guerra di Troia, al servizio degli dèi dell’antica Grecia? E perché gli stessi dèi sembrano padroneggiare una tecnologia avanzatissima, con la quale cercano di alterare il corso degli eventi e di uccidersi a vicenda? Intanto, in un futuro lontano migliaia di anni, su una Terra dove i pochi abitanti rimasti hanno come sola occupazione il divertimento, solo un uomo ricorda ancora l’antica arte della lettura e la sfrutta cercando di risolvere l’enigma più grande di tutti: chi ha costruito le macchine che governano il pianeta? Dall’autore che ha cambiato la fantascienza, la sua saga più intensa e appassionante, dove il gusto per la ricostruzione storica si mescola con i grandi scenari di un futuro apocalittico e affascinante.
Vincitore del premio Locus per il miglior romanzo di fantascienza in 2004.
Nominato per il premio Hugo per il miglior romanzo in 2004.

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Savi scosse la testa. «Questo è un sonie, non una nave spaziale. L’anello-p è molto in alto! Perché vorresti andare lassù?»

Harman lasciò perdere la domanda. «Sai dove potremmo trovare una nave spaziale?»

Savi sorrise di nuovo. Guardandola con attenzione, Ada notò la varietà di espressioni della vecchia, i sorrisi che trasmettevano vero calore e altri, come l’attuale, che suggerivano qualcosa di decisamente freddo o ironico.

«Forse» rispose Savi, ma con un tono che non invitava ulteriori domande.

«Hai incontrato davvero i post-umani?» chiese Hannah.

«Sì» rispose Savi, alzando un poco la voce per superare il ronzio del sonie, mentre correvano a nord. «Ne ho incontrati alcuni.»

«Com’erano?» chiese Hannah, con tono lievemente ansioso.

«Tanto per cominciare, erano tutte donne» disse Savi.

Harman batté le palpebre, sorpreso. «Tutte donne?»

«Sì. Parecchi di noi sospettavano che solo pochi post fossero scesi sulla Terra, ma che avessero usato forme diverse. Tutte femmine. Forse non c’erano post-umani maschi. Forse, controllando la loro evoluzione, non avevano mantenuto i generi. Chissà?»

«Avevano nomi?» chiese Daeman.

Savi annuì. «Quella che conoscevo meglio… be’, quella che vedevo più spesso… si chiamava Moira.»

«Com’erano?» chiese di nuovo Hannah. «Personalità? Aspetto?»

«Preferivano librarsi, anziché camminare» rispose oscuramente Savi. «Amavano dare feste per noi del vecchio stile. Erano inclini a parlare per indovinelli delfici.»

Per un minuto ci fu silenzio, a parte il fruscio del vento sulla carena di policarbonio e sulla bolla del campo di forza. Alla fine Ada chiese: «Scendevano spesso dagli anelli?».

Savi scosse di nuovo la testa. «Non molto spesso. Assai di rado, verso la fine, negli ultimi anni prima del fax finale. Ma correva voce che avessero un insediamento nel bacino del Mediterraneo.»

«Il bacino del Mediterraneo?» ripeté Harman.

Savi sorrise e Ada pensò che fosse uno dei suoi sorrisi divertiti.

«Un migliaio d’anni prima del fax finale» spiegò Savi «i post prosciugarono un mare abbastanza vasto a sud dell’Europa, costruirono una diga fra un promontorio detto Gibilterra e la punta del Nord Africa e proibirono l’accesso ai vecchio stile. La maggior parte del bacino fu trasformata in terre coltivabili, così ci dissero i post, ma un mio amico vi entrò di nascosto alcune volte, prima d’essere scoperto e buttato fuori, e disse che lì c’erano delle… be’, città potrebbe essere la descrizione migliore, se si può chiamare città qualcosa di stato solido.»

«Stato solido?» disse Hannah.

«Lascia perdere, bambina.»

Harman, di nuovo prono, reggendosi sui gomiti, scosse la testa. «Non ho mai sentito parlare del bacino del Mediterraneo. Né di Gibilterra. Né di… cos’era? Il Nord Africa?»

«So che hai trovato alcune carte geografiche, Harman, e che hai imparato a leggerle, più o meno» disse Savi. «Ma erano carte scadenti. E vecchie. I pochi libri che i post-umani hanno lasciato sopravvivere in quest’epoca di neoanalfabeti erano vaghi… inoffensivi.»

Harman corrugò di nuovo la fronte. Volarono a nord in silenzio.

Il sonie li portò, dalla notte polare, nella luce del pomeriggio, lontano dall’oceano scuro e sulla terraferma, a un’altezza che potevano solo immaginare e a una velocità che nemmeno si sognavano. L’anello-p svanì mentre il cielo diventava azzurro e a nord fu visibile l’anello-e.

Sorvolarono terre nascoste da alte nubi bianche, poi videro alti picchi coperti di neve e valli glaciali molto più in basso. Savi lanciò in discesa il sonie, a est dei picchi, e sorvolarono a qualche migliaio di metri una foresta pluviale e verdi savane, muovendosi sempre a tale velocità che molti picchi comparivano come puntini sopra l’orizzonte e diventavano montagne nel giro di pochi secondi.

«Questo è il Sud America?» chiese Harman.

«Lo era, un tempo» rispose Savi.

«Cosa significa?»

«Significa che i continenti sono un po’ cambiati, da quando furono disegnate le carte che hai visto» spiegò Savi. «E hanno anche avuto altri nomi, da allora. Le carte che hai visto mostravano che questa massa di terra era collegata a quella che chiamavano Nord America?»

«Sì.»

«Non lo è più.» Toccò i simboli olografici, girò la manopola e il sonie si abbassò. Ada si alzò sui gomiti, capelli contro la bolla, e guardò tutt’intorno. In silenzio, a parte il fruscio dell’aria sulla bolla, il sonie procedette in volo poco sopra la cima degli alberi: cicadacee, felci giganti, antichi alberi privi di foglie passarono in un lampo. A ovest spuntavano le prime alture verso la linea dei grandi picchi. Più a est, altri alberi primitivi punteggiavano le ondulate praterie. Grossi animali si muovevano come macchie confuse lungo i fiumi e presso i laghi. Altri, con grugni che parevano assurdi, striati di bianco, marrone, tanè, rosso, erano intenti a brucare. Ada non ne riconobbe nessuno.

All’improvviso, una trentina di metri sotto il sonie, un branco di quegli erbivori si diede alla fuga: le bestie erano in preda al panico, correvano per salvarsi. Dietro di loro saltavano cinque o sei creature simili a uccelli, massicce, alte forse più di due metri e mezzo, stimò Ada, con piumaggio scompigliato e il becco più grosso e il muso più brutto che lei avesse mai visto. Gli erbivori correvano velocemente, cinquanta o sessanta chilometri all’ora, immaginò Ada nei secondi prima che il sonie la portasse fuori vista, ma gli uccelli erano ancora più veloci, forse toccavano i novanta chilometri all’ora, quattro volte più veloci di qualsiasi troika o calesse.

«Cosa…» cominciò Hannah.

«Uccelli Terrore» disse Savi. «Fororacidi. Dopo il rubicon, gli ARNisti si sono divertiti così per qualche secolo di follia. In un certo senso è appropriato, perché i veri Uccelli Terrore vagavano su quelle praterie e montagne circa due milioni di anni fa, ma quel tipo di merda, come i vostri dinosauri su al nord, rovina l’ecologia. I post promisero di ripulire il pianeta durante lo Iato del fax finale, ma non mantennero la promessa.»

«Cos’è un ARNista?» chiese Ada. Gli animali, gli Uccelli Terrore dal becco rosso e le loro prede, erano fuori vista, dietro di loro. Branchi più grandi, composti di animali di taglia maggiore, erano visibili adesso a ovest ed erano avvicinati furtivamente da creature simili a tigri. Il sonie virò in alto e puntò verso le alture.

Savi sospirò, come per stanchezza. «Artisti dell’RNA. Freelance del ricombinante. Ribelli sociali e allegri burloni con ordinatori in sequenza e vasche di rigenerazione prodotti clandestinamente.» Guardò Ada, poi Harman, poi Daeman e Hannah. «Non fate caso alle mie parole, bambini.»

Volarono per altri quindici minuti sopra foreste fumanti e poi virarono a ovest su una catena montuosa. Nubi si muovevano intorno a loro e fra i picchi più in basso e la neve frustava il sonie, ma il campo di forza teneva a bada gli elementi.

Savi toccò un’icona brillante. Il sonie rallentò, volteggiò e girò a ovest verso il sole del tardo pomeriggio. Erano molto in alto.

«Oddio!» esclamò Harman.

Davanti a loro, due picchi aguzzi si ergevano ai lati di una stretta gola coperta di terrazze erbose e di rovine davvero antiche, mura di pietra prive di tetto. Un ponte sospeso, anch’esso dell’Età Perduta, ma chiaramente meno antico, correva da un picco aguzzo all’altro sopra le rovine. La strada non proseguiva oltre il ponte (il piano stradale finiva contro un muro di roccia alle due estremità) e le fondamenta erano incassate nella roccia fra le rovine in basso.

Il sonie girò in tondo.

«Un ponte sospeso» mormorò Harman. «C’erano, nei libri.»

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