Dan Simmons - Ilium

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Ilium: краткое содержание, описание и аннотация

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Attenzione! Thomas Hockenberry è stato un insegnante universitario di storia, con una vita assolutamente normale. Per quale motivo, allora, si trova adesso ad assistere alla Guerra di Troia, al servizio degli dèi dell’antica Grecia? E perché gli stessi dèi sembrano padroneggiare una tecnologia avanzatissima, con la quale cercano di alterare il corso degli eventi e di uccidersi a vicenda? Intanto, in un futuro lontano migliaia di anni, su una Terra dove i pochi abitanti rimasti hanno come sola occupazione il divertimento, solo un uomo ricorda ancora l’antica arte della lettura e la sfrutta cercando di risolvere l’enigma più grande di tutti: chi ha costruito le macchine che governano il pianeta? Dall’autore che ha cambiato la fantascienza, la sua saga più intensa e appassionante, dove il gusto per la ricostruzione storica si mescola con i grandi scenari di un futuro apocalittico e affascinante.
Vincitore del premio Locus per il miglior romanzo di fantascienza in 2004.
Nominato per il premio Hugo per il miglior romanzo in 2004.

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Già. Achille ed Ettore sono entrati per primi; hanno urlato non ho capito cosa, hanno tenuto in alto lancia e scudo e… be’… si sono precipitati dentro. Immagino che vedano Olympus Mons e sappiano cos’è e si siano limitati ad andare… all’attacco.

All’attacco di un vulcano? esclamò Orphu. Parve ancor più sbigottito.

All’attacco dell’Olimpo, la casa degli dèi , precisò Mahnmut, anche lui in tono di stupore. Oddio.

Oddio? Oddio cosa? chiese Orphu.

Il portale alle nostre spalle… balbettò Mahnmut. Decine di navi greche l’hanno attraversato…

Sì, l’hai già detto.

Ma dal portale se ne vedono centinaia!

Navi greche?

No. Per la maggior parte sono navi dei POV.

I Piccoli Omini Verdi? Orphu pareva un sintetizzatore vocale mal progettato, emetteva ogni parola come se non l’avesse mai udita prima.

Migliaia di POV. Su centinaia di navi.

Feluche? chiese Orphu.

Sì, feluche, e poi quelle grosse chiatte che usavano per trasportare pietre per le teste, navi a vela più grandi, imbarcazioni più piccole… navigano tutte verso Olympus Mons, ora mescolate alle navi achee.

Perché? chiese Orphu. Perché gli zek navigano verso Olimpo?

Non chiederlo a me! si stizzì Mahnmut. Io qui lavoro soltanto. Ah, oh!

Ah, oh?

Ora il cielo è pieno di striature infuocate, come di meteore fiammeggianti.

Gli dèi hanno ripreso i bombardamenti? chiese Orphu.

Non lo so!

In quale direzione?

Cosa? disse Mahnmut. Se fosse stato progettato con le mascelle, ora ne avrebbe avuto una penzoloni. Il cielo era un reticolo di striature infuocate, mentre i portali mostravano Olympus Mons in una decina di punti intorno a Ilio e il cielo era pieno di nere macchine dentellate saettanti avanti e indietro a quota sempre più bassa. Alcune migliaia di achei e di troiani si erano precipitati nel primo portale dietro Achille ed Ettore, mentre altre decine di migliaia di troiani e loro alleati prendevano posizioni difensive sulle mura di Ilio e nella piana appena fuori delle porte Scee. Gong rimbombavano. Tamburi battevano. L’aria sfrigolava di energia, echeggiava di rombi. Achei correvano a prendere posizione nel fossato di difesa, col sole che scintillava sulle lucide corazze. Un migliaio di arcieri troiani sui bastioni di Ilio tese l’arco, freccia puntata al cielo. Altre decine di nere navi presero il mare dal campo acheo. Mahnmut non riusciva a girarsi con rapidità sufficiente a guardare tutto.

In quale direzione vanno le scie delle meteore? chiese Orphu. Da ovest a est, da est a ovest, da nord a sud?

Cosa diavolo importa la direzione? replicò Mahnmut, brusco. No, aspetta, scusami. Vengono da tutte le parti del cielo. Pare un tratteggio incrociato contro l’azzurro.

Qualcuna punta su Ilio? chiese Orphu.

Non credo. Non direttamente. Un momento, vedo una cosa in punta a una di quelle scie… Faccio uno zoom… Santo cielo, è una…

Nave spaziale? disse Orphu.

Sì! sussurrò Mahnmut. Pinne, scafo, motori rombanti… assomiglia alle astronavi dei fumetti, Orphu. Si libra su una colonna di energia gialla. Anche le altre meteore sono navi spaziali… alcune librate… una in discesa. Ah, oh.

Ah, oh… di nuovo?

L’astronave librata pare che atterri , disse Mahnmut. Come quattro o cinque delle nere macchine volanti più piccole.

Sì? disse Orphu, calmo, forse perfino divertito.

Atterrano sulla cresta, accanto a te! Quasi addosso a te, Orphu! Non ti muovere, arrivo! Si mise a correre a quattro zampe, alla massima velocità, verso la cresta dove lo scarico giallastro dell’astronave sollevava, a un centinaio di metri, polvere e sassi. Nel polverone non scorgeva Orphu, mentre le varie macchine si posavano accanto alla tomba dell’amazzone. Le macchine volanti dentellate estendevano un complicato meccanismo d’atterraggio a tre piedi. Mahnmut riuscì a scorgere, prima di perdere di vista ogni cosa, mentre galoppava nella tempesta di polvere, che le armi nelle navi calabrone in atterraggio giravano su perni, prendendo di mira Orphu.

Tanto non vado da nessuna parte , disse Orphu ridendo. Non slogarti un servomeccanismo per fare più in fretta, amico mio. Credo di sapere chi sono questi tipi.

60

ANELLO EQUATORIALE

Rotolando con Calibano nel buio del terrazzo, a Daeman parve che il mostro cercasse di strappargli il braccio. In realtà, il mostro cercava davvero di strappargli il braccio. Solo le fibre metalliche della termotuta e la risposta automatica dell’indumento a chiudere ogni strappo impedivano ai denti di Calibano di strappare la carne dal braccio di Daeman e poi staccare le ossa l’una dall’altra. Ma la termotuta non avrebbe salvato ancora a lungo Daeman.

L’uomo e la belva in forma umana urtarono tavoli, rotolarono fra cadaveri di post-umani, andarono a sbattere contro una trave maestra e nella microgravità rimbalzarono su una parete di vetro. Calibano non mollava la presa e stringeva a sé Daeman, con le lunghe dita delle mani e quelle, palmate e prensili, dei piedi. A un tratto, sbavando, mollò la presa dei denti, tirò indietro la testa e si tuffò di nuovo verso il collo di Daeman. Di nuovo Daeman parò con l’avambraccio destro, di nuovo fu azzannato fino all’osso e gemette forte, mentre rimbalzavano contro la ringhiera del terrazzo. Malgrado il sistema automatico sigillante della termotuta, il sangue schizzò in globuli separati che scoppiavano nell’urto con la tuta di Daeman o con la pelle squamosa di Calibano.

Per un secondo i due rimasero incuneati contro la ringhiera del terrazzo e Daeman fissò Calibano negli occhi gialli, a solo qualche centimetro dai suoi. Se non ci fosse stato di mezzo l’avambraccio, capì, Calibano avrebbe squarciato con un morso la maschera osmotica e gli avrebbe strappato la faccia in un secondo; ma ciò che passò in realtà nella mente di Daeman in quel momento fu una semplice frase e un fatto sorprendente: "Non ho paura".

Non c’era spedale al quale faxare il suo cadavere e ripararlo in quarantott’ore o anche meno, non c’erano più vermi blu in attesa: qualsiasi cosa fosse accaduta, sarebbe stata permanente.

"Non ho paura."

Vide le orecchie da animale, il muso sbavante, le spalle squamose e pensò di nuovo che Calibano era fatto di carne e di ossa. Ricordò un particolare visto nella grotta, il rosa ripugnante dello scroto e del pene di quella creatura animalesca.

Quando Calibano staccò i denti per un altro tentativo, Daeman capì di non poter bloccare per la terza volta l’affondo verso la giugulare; allora protese in basso la mano libera, trovò due rotondità cedevoli e strinse come non aveva mai stretto nulla in vita sua.

Anziché terminare l’affondo, il mostro tirò indietro di scatto la testa, ruggì con tale forza che il rumore echeggiò nello spazio quasi privo d’aria e si dibatté per liberarsi. Daeman si chinò ancora di più, spostò in basso anche l’altra mano (il braccio destro gli sanguinava, ma le dita di quella mano gli funzionavano ancora) e strinse di nuovo, senza mollare la presa, lasciandosi trascinare da Calibano che si contorceva e scalciava per liberarsi. Immaginò di schiacciare pomodori, immaginò di spremere arance, di farne schizzare la polpa, e non allentò la presa (il suo mondo si era ridotto alla volontà di tenere duro e di strizzare) e Calibano ruggì di nuovo, mosse in un arco il lungo braccio e colpì Daeman, con tanta forza da farlo volare giù, sul terrazzo sottostante.

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