C’erano troppe ombre. Calibano poteva saltargli addosso da uno o l’altro dei terrazzi bui, ma lui non poteva farci niente: doveva stare vicino alla parete e ai balconi per continuare a darsi la spinta, sempre in movimento, galleggiando verso l’alto, rapidamente all’inizio, poi con velocità sempre minore, per scegliere il terrazzo successivo, sentendosi come una rana che saltasse da una foglia di ninfea di pietra e di metallo, all’altra.
All’improvviso si mise a ridere. Ricordò che la sua termotuta, sotto la polvere e il fango e il sangue e la sporcizia, era verde. Lui sembrava davvero una goffa rana rinsecchita, acquattata per darsi la spinta in verticale, ogni dieci ringhiere, ogni dieci balconi. La risata echeggiò sordamente nelle cuffie della trasmittente e lo sconvolse, lo spinse al silenzio, a parte il respiro affannato e i grugniti di sforzo.
Con una stilettata di paura, Daeman esitò e si ribaltò, pur continuando a galleggiare più in alto. "Ho oltrepassato il piano dove il sonie è parcheggiato all’esterno?" si domandò. La distanza dal pavimento in basso pareva impossibile, trecento metri d’aria vuota, almeno, e il sonie era solo… "Quanti piani?" Si sforzò di ricordare l’immagine olografica nella sala di comando di Prospero. Centocinquanta metri? Duecento?
Con la nausea per il terrore d’essersi smarrito, galleggiò più lontano dalla parete e controllò i pannelli di vetro. La maggior parte brillava di quella ripugnante luminescenza arancione, sempre più debole. Alcuni erano limpidi, così in alto, inargentati dal chiarore della Terra. Nessuno mostrava il segno bianco delle membrane semipermeabili, come la prima camera d’equilibrio e la porta di Prospero. "Nell’ologramma ho visto davvero quel segno sulla finestra o presumo solo che ce ne sia uno visibile dall’interno?"
Galleggiando fino quasi a fermarsi al culmine dell’ultimo salto, si tolse in fretta la maschera osmotica. Stava per vomitare.
"Non hai tempo per vomitare, idiota" si disse. Provò a respirare l’aria a quel livello, ma era troppo rarefatta, troppo fredda, troppo viziata. Cosciente solo in parte, si rimise la maschera. "Perché non ho portato la torcia?" si lamentò. "Pensavo che servisse a Harman per badare a Hannah o per individuare Calibano e sparargli, ma ora non riesco a trovare la fottuta finestra."
Si costrinse a rallentare il respiro e a ritrovare la calma. Prima che la gravità cominciasse a tirarlo giù di nuovo verso quel piano buio una trentina di metri più in basso, si diede la spinta e si scostò maggiormente dalla parete, girandosi sulla schiena come un nuotatore che guardasse le stelle.
Eccola là. Quindici metri più in alto, su quella parete. Il riquadro bianco nel pannello opaco di una finestra.
Daeman piroettò, tenne fermo il tubo fra mento e petto, usò tutt’e due le braccia e le mani guantate in un potente nuoto a rana. Se avesse mancato il balcone più vicino, avrebbe perso sessanta o più metri di quota e non credeva di avere le forze per rifare la salita.
Raggiunse il terrazzo, con la sinistra afferrò il tubo e si diede la spinta in verticale, con una scelta di tempo così perfetta che rallentò e si fermò proprio davanti al pannello col segno bianco. Ansimando, con la vista annebbiata dal sudore, protese il braccio destro… mano e braccio attraversarono la membrana come se fosse un velo leggermente appiccicoso.
«Grazie, Signore» ansimò Daeman.
Calibano lo colpì in quel momento, saltando fuori dai recessi in ombra del terrazzo superiore, lunghe braccia e lunghe gambe spalancate e pronte a ghermire, denti che brillavano al chiarore della Terra.
«No» grugnì Daeman, mentre il mostro colpiva, gli avvolgeva intorno al corpo braccia e gambe e lunghe dita, apriva le fauci per azzannargli la giugulare. Daeman riuscì ad alzare il braccio destro a protezione della gola (i denti di Calibano trapassarono la carne e incontrarono l’osso) mentre le due figure, in un groviglio di membra che si dibattevano, col sangue che zampillava nella bassa gravità intorno a loro, cadevano insieme nell’aria rarefatta sul balcone in basso, schiantavano vetro e plastica e legno e carne congelata di post-umani, mentre ruzzolavano nel buio.
Mahnmut fu forse il primo a notare ciò che accadeva nel cielo, nel mare e nella terra intorno a Ilio, ma solo perché si aspettava un evento clamoroso. Non sapeva quale , ma di sicuro non quello che vide in quel momento.
Cosa vedi? chiese Orphu via radio.
Ah… ansimò Mahnmut.
Una sfera rotante, del diametro di qualche centinaio di metri, era comparsa nel cielo, varie migliaia di metri sopra Ilio. Poi una seconda sfera si era materializzata proprio sul campo di battaglia, al centro fra la città e il Boschetto sacro. Mahnmut si girò in fretta e vide una terza sfera comparire sopra gli accampamenti achei, una quarta sul mare, parecchi chilometri al largo, proprio di fronte alle decine di navi achee in fuga. Una quinta comparve a nord della città. Una sesta a sud.
Cosa vedi? chiese Orphu.
Oh… disse Mahnmut.
Tutte le sfere mostrarono lampi di colore, all’improvviso si riempirono di appuntiti disegni frattali e poi si risolsero in immagini multiple di Olympus Mons visto da distanze diverse e inquadrato da prospettive differenti; ma tutte ora mostravano il vulcano e il cielo azzurro di Marte. Una sfera si posò sulla piana di Ilio, così che il terreno marziano nel cerchio di cento metri parve estensione naturale del suolo troiano. La grande sfera a ovest si appiattì, divenne un cerchio nel cielo e sprofondò finché l’oceano marziano non fu a livello del mar Mediterraneo. Acqua rifluì avanti e indietro fra i due mondi. Le navi achee cercarono di ammainare le vele, gli uomini smisero di remare, ma le imbarcazioni dalla prua appuntita non riuscirono a fermarsi in tempo e proseguirono, attraverso il cerchio di ribollente turbolenza, nell’oceano settentrionale marziano, con Olympus Mons dai bianchi pendii stagliato sullo sfondo. In qualsiasi direzione guardasse, Mahnmut vedeva il vulcano di Marte, anche attraverso le sfere che ora si dissolvevano in portali circolari in alto nel cielo sopra Ilio.
Che cosa succede? gridò Orphu via radio.
Ah… disse Mahnmut.
Decine e decine di neri oggetti volanti si precipitarono fuori dei portali nel cielo, fuori del cerchio che tagliava il mare dietro Mahnmut, perfino fuori del portale a livello del suolo (un arco, ora, più che un cerchio, perché la base era sotto il suolo troiano) che si apriva a meno di un centinaio di metri di fronte ad Achille, Ettore e i loro uomini. Gli oggetti volanti si lanciarono nel cielo come calabroni giganteschi e Mahnmut notò che erano neri, dentellati, a piani netti, non più grossi di Orphu, spinti da visibili motori a impulso sistemati nel ventre, nei fianchi e a poppa. I velivoli avevano un abitacolo di vetro nero, a bulbo, ed erano ornati a mo’ di festoni di sottili antenne e di marchingegni che parevano armi: missili, cannoni, proiettori di raggi. Se quelli erano i cocchi della nuova generazione, gli dèi erano passati in tutta fretta all’alta tecnologia industriale.
Mahnmut! tuonò Orphu.
Scusami , disse il piccolo moravec. Quasi balbettando, si affrettò a descrivere il caos nei cieli, nel mare e nei campi intorno a loro. Aveva difficoltà a tenersi al passo con gli eventi.
Cosa fanno Achille ed Ettore e gli altri greci e troiani? chiese Orphu. Fuggono?
Alcuni sì , disse Mahnmut. Ma quasi tutti gli achei intorno a me e i troiani nei pressi della cresta dove ti trovi corrono dentro il più vicino portale.
Vi corrono dentro? ripeté Orphu. Mahnmut non aveva mai sentito il suo amico usare quel tono di sbalordimento.
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