Dan Simmons - Ilium

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Attenzione! Thomas Hockenberry è stato un insegnante universitario di storia, con una vita assolutamente normale. Per quale motivo, allora, si trova adesso ad assistere alla Guerra di Troia, al servizio degli dèi dell’antica Grecia? E perché gli stessi dèi sembrano padroneggiare una tecnologia avanzatissima, con la quale cercano di alterare il corso degli eventi e di uccidersi a vicenda? Intanto, in un futuro lontano migliaia di anni, su una Terra dove i pochi abitanti rimasti hanno come sola occupazione il divertimento, solo un uomo ricorda ancora l’antica arte della lettura e la sfrutta cercando di risolvere l’enigma più grande di tutti: chi ha costruito le macchine che governano il pianeta? Dall’autore che ha cambiato la fantascienza, la sua saga più intensa e appassionante, dove il gusto per la ricostruzione storica si mescola con i grandi scenari di un futuro apocalittico e affascinante.
Vincitore del premio Locus per il miglior romanzo di fantascienza in 2004.
Nominato per il premio Hugo per il miglior romanzo in 2004.

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Hannah, ancora priva di conoscenza, era scossa da un tremito incontrollabile. Harman la stringeva fra le braccia, a mani nude la massaggiava per riscaldarla, ma senza grandi risultati. L’avvolsero alla meglio nel foglio di plastica, anche se non erano convinti che l’involucro trattenesse il calore corporeo.

«Morirà, se non facciamo qualcosa» mormorò Daeman. Dalle ombre delle vasche ormai buie provenne un fruscio. Daeman non si prese nemmeno la briga di alzare la pistola. Il vapore prodotto dall’ossigeno liquido e da altri fluidi fuoriusciti cominciava a riempire lo spedale.

«Tanto moriremo presto in ogni caso» disse Harman. Indicò i pannelli trasparenti sul soffitto.

Daeman alzò gli occhi: il bianco puntino luminoso dell’acceleratore lineare lungo tre chilometri era più vicino, molto più vicino. «Quanto manca?» chiese.

Harman scosse la testa. «Senza corrente, i cronometri e Prospero sono scomparsi.»

«Quando sono iniziati i guai avevamo ancora una ventina di minuti.»

«Già» disse Harman. «Ma quanto tempo è trascorso? Venti minuti? Trenta? Quarantacinque?»

Daeman guardò in alto. La Terra non si vedeva; solo le stelle e la sagoma luminosa che si precipitava contro di loro ardevano di gelida luce, al di là dei pannelli trasparenti. «La Terra era ancora visibile quando è iniziata questa merda» disse Daeman. «Sarà stato non più di venti minuti fa. Quando ricompare…»

Il limbo biancazzurro del pianeta comparve tra i pannelli inferiori. «Dobbiamo andare» disse Daeman. Nel buio alle loro spalle ci furono altri schianti e fruscii. Daeman si girò di scatto, pistola pronta, ma Calibano non venne fuori. Ora anche la gravità dello spedale diminuiva; liquidi raccolti in pozze si staccavano dal pavimento e galleggiavano, si aggregavano in forme simili ad amebe e tendevano a divenire sfere. Da ogni parte la luce della torcia si rifletteva su superfici lucide e bagnate.

«Come ce ne andiamo?» chiese Harman. «Abbandoniamo qui Hannah?» Le palpebre della donna non erano chiuse completamente, ma lasciavano vedere solo il bianco degli occhi. Hannah tremava meno: a Daeman parve un segno infausto.

Il giovane si era messo la maschera (nello spedale c’era aria appena sufficiente a respirare, anche se puzzava come una cella per carne surgelata rimasta senza corrente) e ora si grattò la barba. «Non possiamo portarla al sonie, abbiamo solo due termotute. Morirà assiderata già nella città, altro che nello spazio.»

«Il sonie ha il campo di forza e il riscaldamento» disse piano Harman. «Savi li aveva messi in funzione, quando volavamo ad alta quota.» Si era di nuovo sollevato la maschera e gli si condensava il fiato nell’aria fredda. Aveva ghiaccioli sulla barba e sui baffi, e occhi così stanchi che Daeman stava male solo a guardarli.

Daeman scosse la testa. «Savi mi ha spiegato tutto sul freddo e sul caldo nello spazio, ciò che il vuoto provoca al corpo umano. Hannah sarà già morta prima che mettiamo in funzione il campo di forza.»

«Ricordi come metterlo in funzione?» chiese Harman. «Come pilotare quel maledetto velivolo?»

«Io… non lo so» rispose Daeman. «Ho guardato Savi pilotarlo, ma non ho mai pensato che avrei dovuto farlo io. Tu ti ricordi?»

«Mi sento così… stanco» disse Harman, strofinandosi le tempie.

Hannah aveva smesso di tremare e pareva morta. Daeman si tolse il guanto della tuta termica e posò la mano sul petto della ragazza. Per un secondo fu sicuro che fosse morta, poi sentì il debole battito del cuore, rapido come quello di un passerotto. «Harman, togliti la termotuta» gli disse in tono deciso.

Harman lo guardò, sorpreso. «Sì, hai ragione» disse. «Ho avuto le mie cinque Ventine. Lei merita di vivere più di…»

«No, idiota» lo interruppe Daeman e cominciò ad aiutarlo a togliersi la termotuta. L’aria già gli gelava la faccia scoperta e le mani; Daeman non riusciva a immaginare cosa significasse essere nudi in quel freddo. L’aria diventava sempre più rarefatta, le loro voci risuonavano più acute e più deboli. «Dividi con lei la termotuta. Conta fino a cinquecento, poi la togli a lei e ti scaldi. Continua a scambiarla con lei, se no muore.»

«Tu dove andrai?» ansimò Harman. Si era tolto la termotuta e cercava di infilarla alla ragazza priva di sensi, ma per il freddo aveva un tale tremito alle braccia e alle mani che Daeman dovette aiutarlo. La termotuta si adattò immediatamente al corpo di Hannah! e la ragazza cominciò di nuovo a tremare, anche se la tuta tratteneva ora il cento per cento del calore corporeo. Harman le mise sul viso la maschera osmotica.

«Vado a prendere il sonie» ansimò Daeman. Diede a Harman la pistola, ma fu obbligato a sollevare la maschera per farsi udire, perché Harman non aveva più la radio incorporata nella tuta. «Tienila, nel caso che Calibano si faccia vivo.» Prese il pezzo di tubo, lungo più di un metro, che aveva usato come palanchino.

«Non verrà da noi» disse Harman, con i denti che gli battevano. «Verrà a prendere te. Poi potrà mangiarci tutti a piacimento.»

«Be’, speriamo di fargli venire il mal di pancia» disse Daeman. Si calò la maschera osmotica, si diede la spinta e si proiettò verso la membrana d’uscita.

Usò l’estremità appuntita del tubo per tagliare nella membrana un foro a grandezza d’uomo; l’attraversò, scalciando, e si trovò nella gravità più bassa, nel gelo più intenso e nel buio fuori dello spedale. Solo allora si accorse di non avere detto a Harman che contava di tornare lì col sonie e di attraversare in qualche modo la parete finestra per prenderli a bordo. "Be’" pensò "è troppo tardi per tornare indietro a dirglielo."

Aveva sempre avuto difficoltà a tenere dietro a Savi e Harman, quando all’inizio si muovevano nella città di cristallo, un mese (un’eternità!) prima, con quel sistema di spinta e breve volo; ma ora nuotava nell’aria rarefatta come una creatura marina abituata alla bassa gravità, come una lontra, e trovava sempre il posto perfetto dove puntare il piede per darsi la spinta nell’istante giusto, muoveva come pagaie nell’aria i tre arti liberi, con la massima economia di sforzo fisico, faceva capriole e piroette, con tempismo perfetto per trovare il successivo montante o tavola o perfino cadavere post-umano dove darsi la spinta e percorrere il tratto seguente del viaggio.

Eppure quel sistema non era abbastanza rapido. Daeman sentiva che il tempo avrebbe finito per vincere la corsa. Lanciava occhiate in alto ai pannelli della città di cristallo, che pian piano si oscuravano, che rendevano più fitto il buio fra i banchi di fuchi e le terrazze disseminate di cadaveri; ma lì non c’erano pannelli trasparenti, dai quali vedere l’acceleratore lineare in arrivo. "Lo sentirò" si chiese Daeman "quando si schianterà contro il tetto di cristallo? O l’aria è troppo sottile per trasmettere i suoni?"

Accantonò le domande: giunto il momento, l’avrebbe scoperto.

Diretto a sud, rischiò di oltrepassare la torre di cristallo, ma guardò in alto e vide di essere proprio sotto le centinaia e centinaia di piani che si alzavano nel buio sopra di lui.

Atterrò sull’asteroide, resse a due mani il tubo, si guardò intorno, usando le lenti della termotuta per penetrare le tenebre. Ombre umanoidi galleggiavano là fuori, alcune abbastanza vicino, ma i loro capitomboli involontari facevano pensare a cadaveri di post-umani, non a Calibano. Probabilmente.

Daeman si mise sottobraccio il tubo, si accosciò, imitando la postura di Calibano, e si diede la spinta, con tutte le energie residue nelle gambe e nelle braccia. Galleggiò verso l’alto, ma lentamente, troppo lentamente. Aveva l’impressione di non essersi affatto mosso, quando raggiunse il primo terrazzo, due metri e mezzo più in alto; e capì quanto fosse debole, quando usò la ringhiera per spingersi di nuovo in alto, tenendo d’occhio le ombre nel salire.

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