Prospero rise. «Oh, no! Quel poveraccio fu mandato qui da una maledizione, da quel crocevia dove gran parte dei post-umani è fuggita. Odisseo è perduto nel tempo, costretto a vagare più a lungo da una malvagia, malvagia dama che conosco come Cerere, ma che Odisseo conobbe (in ogni senso) come Circe.»
«Non capisco» disse Harman. «Savi ammise d’avere scoperto Odisseo solo poco tempo fa, mentre dormiva in una delle crioculle.»
«Vero» disse Prospero. «Ma anche falso. Savi sapeva del viaggio di Odisseo e di dove lui cerca di andare. Si è servita di lui, proprio come lui si è servito di lei.»
«Ma è davvero lo stesso acheo del dramma del lino?» chiese Daeman.
«Sì e no» rispose Prospero, in quel suo modo che innervosiva. «Il dramma mostra un tempo e una storia che si suddividono. Questo Odisseo proviene da una delle diramazioni, sì. Non è l’Odisseo idi tutto il racconto, no.»
«Ancora non ci hai detto chi è Setebo» lo incalzò Harman. Si spazientiva subito. Altre sei persone furono faxate via, risanate. Ne restavano solo ventinove. Mancavano venti minuti all’ora stabilita per andare di corsa al sonie. L’acceleratore lineare era tanto vicino da essere visibile a occhio nudo dalla finestra. Il wormhole era una sfera di mutevole chiaroscuro.
«Setebo è un dio la cui caratteristica è puro potere arbitrario» disse Prospero. «Uccide a caso. Risparmia a capriccio. Assassina all’ingrosso, ma senza schema né piano. È un dio dell’undici settembre. Un dio di Auschwitz.»
«Cosa?» fece Daeman.
«Lascia perdere» rispose il mago.
«Dice» sibilò Calibano dal buio in fondo, dalle parti del tavolo da cannibali «può piacergli, forse, ciò che gli serve. Sì, Lui ama ciò che gli fa bene, ma perché? Non ottiene nessun bene altrimenti.»
«Dio lo maledica!» gridò Daeman. «Ora lo trovo, quel bastardo!» Prese la pistola e balzò verso il buio. Altri quattro corpi furono faxati via e le loro vasche si svuotarono con un risucchio. Ancora solo venticinque.
Là in fondo c’erano corpi per terra, corpi sul tavolo, parti di corpo sulla poltrona. Daeman tenne nella sinistra la torcia di Savi, la pistola nella destra, il cappuccio e le lenti notturne al loro posto, ma vedeva ancora buio tra le ombre. Attese di scorgere un movimento, con la coda dell’occhio.
«Daeman!» chiamò Harman.
«Un minuto» gridò Daeman in risposta, aspettando, facendo da esca. Voleva che Calibano balzasse fuori. Nella pistola aveva cinque cariche di dardi e sapeva per esperienza che sarebbero stati sparati in rapida sequenza, se avesse mantenuto la pressione sul grilletto. Avrebbe cacciato cinquemila dardi di cristallo in quel bastardo figlio di puttana se…
«Daeman!»
Al secondo grido di Harman, Daeman si girò. «Hai visto Calibano?» disse, rivolto alla zona di comando, illuminata.
«No» rispose Harman. «Peggio.»
Daeman udì il rombo delle valvole a pressione e poi i deboli segnali d’allarme. Nelle vasche qualcosa non andava.
Harman indicò varie spie rosse virtuali lampeggianti. «Le vasche si prosciugano prima che gli ultimi corpi siano risanati.»
«Calibano è riuscito a interrompere il flusso di liquido nutritivo dall’esterno dello spedale» disse Prospero. «Quei venticinque sono morti.»
«Maledizione!» ruggì Harman. Batté il pugno sulla parete.
Daeman si aggirò nella foresta di vasche, illuminando quelle che si prosciugavano. «Il livello del liquido scende rapidamente» gridò a Harman.
«Li faxeremo comunque.»
«Faxerai cadaveri con le viscere brulicanti di vermi blu» disse Daeman. «Dobbiamo uscire di qui.»
«È proprio ciò che Calibano vuole» gridò Harman. Ormai Daeman non vedeva più il pannello di comando, si era inoltrato parecchio fra le ultime file di vasche, in luoghi bui dove prima aveva paura di andare. Sentiva che in mano la pistola cominciava a pesargli. Continuò a spostare il raggio luminoso da vasca a vasca.
Prospero, con monotona voce da vecchio, recitava:
Mi pare, figlio mio,
che tu sia agitato come da paura:
non temere. Il nostro gioco è finito.
Gli attori, come dissi, erano spiriti,
e scomparvero nell’aria leggera.
Come l’opera effimera del mio
miraggio, dilegueranno le torri
che salgono su alle nubi, gli splendidi
palazzi, i templi solenni, la terra
immensa e quello che contiene; e come
la labile finzione, lentamente
ora svanita, non lasceranno orma.
Noi siamo di natura uguale ai sogni,
la breve vita è nel giro d’un sonno
conchiusa.
«Chiudi quella maledetta boccaccia» gridò Daeman. «Harman, mi senti?»
«Sì» rispose Harman, accasciato sul pannello di comando. «Dobbiamo andarcene, Daeman. Abbiamo perduto gli ultimi venticinque. Non possiamo più fare niente.»
«Harman, ascoltami!» In piedi accanto all’ultima fila di vasche, puntava con fermezza il raggio luminoso. «In questa vasca…»
«Daeman, dobbiamo andare! Ci sono sbalzi di corrente. Calibano sta tagliando i fili.»
Come per dimostrarlo, la sfera olografica si dissolse e Prospero svanì. Le luci delle vasche si spensero. Il bagliore del pannello di comando virtuale cominciò ad affievolirsi.
«Harman!» gridò Daeman. «In questa vasca c’è Hannah!»
«Devo andare a cercare Achille ed Ettore» disse Mahnmut a Orphu. «Ti lascerò qui, nel Boschetto sacro.»
«Certo. Perché no? Forse gli dèi mi scambieranno per un macigno e non lanceranno una bomba su di me. Ma puoi farmi due favori?»
«Senz’altro.»
«Primo, tieniti in contatto radio. Mi rattristo, da solo nel buio, non sapendo cosa succede. Soprattutto ora che mancano pochi minuti all’innesco del Congegno.»
«Certo.»
«Secondo, legami da qualche parte, per favore. Mi piace questa bardatura di levitazione… ch’io sia dannato se riesco a capire come funziona… ma non voglio che il vento mi sospinga in mare di nuovo.»
«Già fatto» disse Mahnmut. «Ti ho legato al sasso più grande del tumulo funerario dell’amazzone Mirina, qui sul costone.»
«Bene» disse Orphu. «A proposito, hai idea di chi fosse questa amazzone Mirina e del perché abbia una tomba qui, appena fuori le mura di Ilio?»
«Neanche l’ombra di un’idea» rispose Mahnmut. Lasciò lì l’amico e si mise a correre a quattro zampe per la piana di Ilio, verso il campo acheo, suscitando qualche occhiata di curiosità da parte dei greci.
Non ebbe bisogno di perlustrare la spiaggia per trovarli: Achille ed Ettore avevano appena attraversato il ponte sul fossato e guidavano i loro capitani e due o tremila guerrieri verso il centro del vecchio campo di battaglia. Mahnmut decise di essere formale, si alzò sulle gambe e salutò.
«Piccola macchina» disse Achille «dov’è il tuo padrone, il figlio di Duane?»
Mahnmut impiegò un secondo a elaborare la domanda. «Hockenberry?» disse alla fine. «In primo luogo, non è mio padrone. Nessuno è padrone di nessuno. In secondo luogo, è andato sull’Olimpo per scoprire cosa combinano gli dèi. Ha detto che sarebbe tornato subito.»
Achille sorrise, con un lampo di denti bianchi. «Bene. Ci fa comodo conoscere le intenzioni del nemico.»
Odisseo, fra Achille ed Ettore, intervenne: «A Dolone non è andata molto bene».
Diomede, dietro i due eroi, rise. Ettore si accigliò.
Dolone era il guerriero che andò in ricognizione per Ettore, la notte scorsa, quando la situazione per i greci pareva brutta , trasmise Orphu.
Mahnmut ormai capiva il greco, dopo averlo scaricato dal database di Orphu, e poteva parlarlo, ma continuava a trasmettere all’amico il dialogo, emettendo suoni impercettibili.
Orphu continuò: Diomede e Odisseo catturarono Dolone mentre facevano un raid notturno; gli promisero di lasciarlo in vita, ebbero da lui tutte le informazioni che volevano e dopo Diomede gli mozzò la testa. Credo che Diomede l’abbia tirato in ballo perché ancora non si fida di Ettore come alleato e…
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