«Su Marte, per cominciare» rispose il mago. Vide la loro espressione perplessa e ridacchiò. «Avete idea, voi uomini moderni, di dove sia Marte? Di che cosa sia, Marte?»
«No» rispose Daeman, senza il minimo imbarazzo. «Da lì torneranno?»
«Non credo» rispose Prospero, sempre sorridendo.
«Allora non ha importanza, no?» disse Harman. «Prospero, suggerivi che potremmo usare come arma questo… acceleratore di particelle wormhole ?»
«Come arma finale contro questa città» disse Prospero. «I normali esplosivi o le armi avrebbero scarso effetto sulla città di cristallo o sull’asteroide. Queste torri sono fatte per sopportare anche l’impatto di meteoriti. Ma tre chilometri e più di materiali a massa pesante con un wormhole sul muso, sotto spinta, avranno un impatto decisivo, soprattutto se prendete come bersaglio lo spedale.»
«Calibano sopravvivrà?» chiese Daeman.
Prospero si strinse nelle spalle. «I tunnel e le grotte l’hanno già salvato in altre circostanze. Ma forse una collisione di questa portata fornirà un evento di estinzione della specie Calibano.»
«Può fuggire prima che la collisione avvenga?» chiese Harman.
«Solo se viene a sapere del sonie e s’impossessa di una delle vostre termotute» rispose Prospero. Sorrise in modo sconcertante, come se quella possibilità non fosse del tutto campata in aria.
«Quanto impiegherà ad arrivare qui, quell’acceleratore mostruoso?» chiese Daeman. «Prima dell’impatto.»
«Potete programmarlo perché arrivi con la velocità o con la lentezza che preferite» disse il mago. Si alzò e camminò attraverso il pannello centrale, dove la parte inferiore del suo corpo sparì nel metallo e nei pannelli virtuali. Alzò il braccio, la veste scivolò un po’ indietro e il magro avambraccio e il dito ossuto indicarono l’estremità dell’acceleratore lontana dall’anello del wormhole. «Proprio qui» disse Prospero «ci sono i razzi direzionali per i cambiamenti di piano… i motori più potenti. Vi mostrerò come accenderli e come puntare quest’arma.»
I due seguirono le sue indicazioni per ruotare l’acceleratore e programmare quelle che Prospero chiamò le coordinate di traiettoria e delta-v. Daeman tenne il dito sospeso sul pulsante virtuale "Avvio" e si rivolse a Prospero. «Non ci hai detto quanto tempo abbiamo prima dell’impatto.»
L’ologramma congiunse le mani e unì la punta delle dita. «Cinquanta ore sembrano sufficienti. Un’ora per andare allo spedale e prenderne il controllo. Quarantotto ore per consentire ai nuovi arrivati di guarire e per rimandarli indietro intatti. Poi un’ora per arrivare al sonie e fuggire prima che questo piccolo mondo finisca.»
«Non è previsto tempo per dormire?» disse Harman.
«Lo sconsiglio. Probabilmente in ogni minuto di quelle cinquanta ore Calibano cercherà di uccidervi.»
Harman e Daeman si scambiarono un’occhiata. «Possiamo fare dei turni per dormire e mangiare e stare attenti ai comandi» disse Daeman. Soppesò la pistola e poi la rimise nello zaino di Savi. «Terremo a bada Calibano.»
Harman annuì, dubbioso. Pareva molto, molto stanco.
Daeman guardò di nuovo l’immagine in tempo reale dell’acceleratore lineare e mise il dito sopra il pulsante "Attivazione propulsori". «Prospero, sei sicuro che non porremo fine a tutta la vita sulla Terra o cose del genere?»
Il mago ridacchiò. «Tutta la vita come la conoscete voi, sì. Ma non ci sarà alcun evento d’estinzione della specie a causa di un asteroide fiammeggiante che precipita dallo spazio. Almeno, non credo. Staremo a vedere.»
Daeman guardò Harman, le cui mani erano immerse fino al polso nel pannello virtuale. «Vai avanti» disse Harman.
Daeman premette il pulsante. Sul display sopra il proiettore olografico, otto enormi propulsori alla base dell’acceleratore lineare brillarono di solidi, continui impulsi d’accensione ionica. La lunga struttura vibrò lievemente e cominciò a muoversi pian piano… dritto verso il viso di Daeman e di Harman.
«Addio, Prospero» disse Daeman. Prese lo zaino di Savi e si girò verso l’uscita semipermeabile.
«Oh, no» disse Prospero. «Se riuscirete ad arrivare allo spedale, mi troverete lì. Per niente al mondo mi perderei le prossime cinquanta ore.»
54
PIANA DI ILIO E OLIMPO
Lascio la città in fiamme per cercare Achille e vedo che il caos si estende fino al mare. Troiani e achei insieme estraggono cadaveri da crateri fumanti, nella piana dalle porte Scee alla battigia, e da ogni parte uomini sconcertati aiutano i compagni feriti a tornare a Ilio oppure ad attraversare il fossato difensivo fino al campo acheo. Come in molti bombardamenti aerei della mia epoca, gli effetti psicologici sono più terrificanti dei danni materiali. Immagino che ci siano parecchie centinaia di vittime, fra guerrieri troiani e achei e fra i civili a Ilio, ma la maggior parte l’ha scampata, soprattutto all’aperto, lontano dalle mura crollate e dalle schegge di muratura volanti.
Mentre mi arrampico per il pendio che porta al Boschetto sacro, vedo venire verso di me il piccolo robot che si tira dietro l’amico a forma di granchio librato a mezz’aria, come un bambino che rimorchi un carretto giocattolo particolarmente grande. Non so perché, ma sono così contento di vederli vivi (anche se "ancora in esistenza" potrebbe essere un’espressione migliore) che mi si inumidiscono gli occhi.
«Hockenberry, sei ferito» dice il robot Mahnmut. «È grave?»
Mi tocco la fronte e il cuoio capelluto. Non sanguino quasi più. «Non è niente» dico.
«Hockenberry, sai cos’era la grande esplosione?»
«Una bomba atomica» rispondo. «Poteva essere termonucleare ma, nonostante il rombo, sospetto che fosse solo una bomba a fissione. Un po’ più potente di quella di Hiroshima, forse. Non ne so molto, di atomiche.»
Mahnmut drizza la testa. «Da dove vieni, Hockenberry?»
«Indiana» rispondo senza pensare.
Mahnmut aspetta.
«Sono uno scoliaste» gli dico di nuovo, sapendo che lui trasmette tutto al suo amico mediante il collegamento radio che in precedenza ha definito a raggio compatto. «Gli dèi mi hanno ricostruito partendo da vecchie ossa e DNA e brandelli di memoria estratti dai frammenti che hanno trovato sulla Terra.»
«Memoria dal DNA? Non credo.»
Faccio un gesto d’impazienza. «Non ha importanza» dico, brusco. «Sono il morto che cammina. Sono vissuto nella seconda metà del ventesimo secolo, probabilmente sono morto nella prima parte del ventunesimo. Ho ricordi nebulosi delle date. Tutta la mia vita precedente era nebulosa, fino a qualche settimana fa, quando i ricordi sono cominciati a tornare.» Scuoto la testa. «Sono un morto che cammina.»
Mahnmut continua a guardarmi con quella scura banda metallica che ha al posto degli occhi. Poi annuisce giudiziosamente e mi dà un calcio, piuttosto forte, allo stinco sinistro.
«Maledizione!» grido, saltellando sull’altra gamba. «Che ti prende?»
«A me sembri vivo» dice il piccolo robot. «Come sei venuto qui dal ventesimo o ventunesimo secolo dell’Età Perduta, Hockenberry? Per la maggior parte, i nostri scienziati moravec sono abbastanza sicuri che un simile viaggio nel tempo è impossibile, a meno che tu non corra quasi alla velocità della luce o non nuoti troppo vicino a un buco nero. Hai fatto l’una o l’altra di queste cose?»
«Non lo so!» rispondo. «E di sicuro non ha importanza. Guarda che macello!» Indico la città fumante e il caos nella piana di Ilio. Alcune navi greche già prendono il mare.
Mahnmut annuisce: per essere un robot, ha un linguaggio del corpo bizzarramente umano. «Orphu si chiede perché gli dèi hanno interrotto l’attacco.»
Guardo il grande guscio devastato dietro di lui. A volte dimentico che lì dentro c’è un cervello, a quanto si dice. «Riferisci a Orphu che non lo so» replico. «Forse volevano solo godersi per un poco lo spettacolo della paura e del caos quaggiù, prima di vibrare il coup de grâce. » Esito un secondo. «È un’espressione francese per…»
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