« Areté è semplicemente la capacità di eccellere in tutte le cose e l’impegno per riuscirvi» disse Odisseo. « Areté significa offrire tutte le azioni come una sorta di sacramento all’eccellenza, di dedicare la propria vita a trovare l’eccellenza, a riconoscerla quando si presenta e a raggiungerla prima della morte.»
Uno dei nuovi, dieci file più su lungo il pendio, un uomo massiccio che a Ada ricordò un poco Daeman, si mise a ridere e chiese: «Come puoi raggiungere l’eccellenza in tutte le cose, Maestro? Perché dovresti volerlo? Parrebbe terribilmente faticoso». Si guardò intorno, in attesa della risata generale, ma gli altri lo fissarono in silenzio e tornarono a guardare Odisseo.
Il greco sorrise (un lampo di denti bianchi e forti, contro la pelle abbronzata e la corta barba grigia) e disse: «Non si può arrivare all’eccellenza in tutte le cose, amico mio, ma bisogna provarci. E come si potrebbe non volerlo?».
«Ma ci sono tante di quelle cose da fare» rise l’altro. «Non ci si può allenare in tutte. Bisogna fare una scelta e concentrarsi su quelle importanti.» Strinse la giovane donna accanto a lui, chiaramente la sua compagna, e lei rise forte, ma fu l’unica a farlo.
«Sì» disse Odisseo «ma tu insulti tutte quelle azioni nelle quali non onori areté. Mangiare? Mangia come se fosse il tuo ultimo pasto. Prepara il cibo come se non ce ne fosse più! Sacrificare agli dèi? Devi compiere ogni sacrificio come se la vita della tua famiglia dipendesse dalla tua energia e devozione e concentrazione. Amare? Sì, ama come se fosse la cosa più importante al mondo, ma rendila solo una stella nella costellazione di eccellenza che è areté. »
«Non capisco l’ agon , Odisseo» disse una giovane donna nella terza fila. Ada sapeva che si chiamava Peaen. Era intelligente, scettica su tutto, ma si tratteneva lì da quattro giorni.
«L’ agon è semplicemente la comparazione di tutte le cose simili, una con l’altra» spiegò Odisseo a bassa voce, ma chiaramente «e giudicare una cosa come uguale, superiore o inferiore rispetto a un’altra. Tutte le cose dell’universo partecipano alla dinamica dell’ agon .» Indicò l’albero morto su cui sedeva. «Quest’albero era superiore, inferiore o solo uguale a quello là?» Indicò un albero alto e rigoglioso sulla collina, al limitare della foresta. All’ombra dei rami c’erano dei voynix. I voynix non si avvicinavano mai a Odisseo.
«Quell’albero è vivo» replicò a voce alta il tipo massiccio che era intervenuto poco prima. «Non può non essere superiore a un albero morto.»
«Tutte le cose viventi sono dunque superiori a quelle morte?» replicò Odisseo. «Molti di voi hanno seguito il dramma del lino e assistito alla battaglia che vi si svolge. Un mercante di letame vivo oggi è migliore di Achille, anche se Achille oggi è morto?»
«Così si paragonano cose dissimili» obiettò una donna.
«No. Tutt’e due sono uomini. Tutt’e due nacquero. Tutt’e due moriranno. Poco importa se uno respira ancora e l’altro risiede solo nelle ombre dell’Ade. Bisogna poter paragonare gli uomini, o le donne, e per questo dobbiamo conoscere nostro padre, nostra madre. La nostra storia. Le nostre storie.»
«Be’, l’albero su cui siedi, Maestro, è sempre morto» disse Petyr. Stavolta varie persone, su e giù per il pendio, risero.
Odisseo si unì alle risate. Indicò un passero che si era appena posato su uno dei pochi rami che lui non aveva tagliato dall’albero caduto. «Non solo è sempre morto» disse «è morto di fresco. Ma già la sua utilità, in termini di agon , ha superato l’utilità di quell’albero vivo lassù. Per quel passero. Per gli insetti che in questo stesso momento scavano nella corteccia di questo gigante caduto. Per topi e arvicole e animali più grandi che presto verranno ad abitare questo albero morto.»
«Chi sarà allora il giudice finale dell’ agon ?» chiese un uomo più anziano, serio, nella quinta fila. «Uccelli, insetti o uomini?»
«Tutti» rispose Odisseo. «Ciascuno a turno. Ma l’unico giudice che conti sei tu.»
«Non è arroganza?» obiettò una donna che Ada riconobbe come un’amica di sua madre. «Chi ci ha eletto giudici? Chi ci ha dato il diritto di giudicare?»
«L’universo vi ha eletti, mediante quindici miliardi di anni di evoluzione» disse Odisseo. «Vi ha dato occhi con cui vedere. Mani con cui reggere e soppesare. Un cuore con cui sentire. Una mente con cui apprendere le regole del giudizio. E un’immaginazione con cui tenere conto del giudizio di uccelli e d’insetti e perfino di altri alberi in questa faccenda. E dovete accostarvi a questo giudizio guidati dall’ areté… Credetemi, insetti e uccelli e alberi già lo fanno. Non hanno tempo per la mediocrità, nel loro mondo. Non si preoccupano se sia arrogante giudicare nella scelta di un compagno, di un nemico… o di una casa.» Odisseo indicò il punto dove il passero era saltato in un buco del tronco ed era scomparso nella cavità dell’albero caduto.
«Maestro» disse un giovanotto in fondo alla folla «perché ci chiedi di fare la lotta almeno una volta al giorno?»
Ada aveva ascoltato abbastanza. Terminò la bevanda fredda e tornò alla villa, fermandosi nella veranda a guardare l’ampio prato erboso dove decine di visitatori — anzi, discepoli — passeggiavano e parlavano tra loro. I lembi di seta delle tende si agitavano nella tiepida brezza. Servitori passavano da un visitatore all’altro, ma pochi ospiti accettavano i cibi o le bevande offerti. Odisseo aveva preteso che coloro che si fermavano ad ascoltarlo più di una volta non permettessero ai servitori di lavorare per loro né ai voynix di servirli. All’inizio molti se n’erano andati per non sottostare a questa condizione, ma un numero sempre maggiore restava.
Ada guardò il cielo, notò i pallidi cerchi dei due anelli orbitanti e pensò a Harman. Si era così arrabbiata con lui, quando aveva parlato di donne che sceglievano fra lo sperma degli uomini mesi o anni o decenni dopo il rapporto (di quell’argomento non si discuteva, semplicemente, tranne che fra madri e figlie; e anche in quel caso, solo una volta). E quella sciocchezza sul fatto che c’entrassero i geni di una falena, come se le donne umane non avessero scelto in quel modo, da tempo immemorabile, il padre del figlio loro assegnato. Harman era stato davvero… disgustoso… a sollevare l’argomento.
Tuttavia, ciò che l’aveva sconcertata maggiormente era stata la dichiarazione del suo nuovo amante di voler essere il padre del figlio di Ada, non solo quello il cui seme sarebbe stato scelto in un futuro più o meno lontano, ma di voler essere presente, riconosciuto come padre; e lei si era infuriata al punto da lasciarlo partire per quell’innocua avventura con Savi e Daeman, senza nemmeno una parola gentile. Anzi, a dire il vero, con parole e occhiate ostili.
Si toccò il ventre. Lo spedale non le aveva notificato tramite i servitori che era giunto per lei il momento di procreare; ma, d’altro canto, lei non aveva chiesto d’essere messa in lista. Era felice di non dover scegliere a breve scadenza fra i — come li aveva chiamati, Harman? — fra i pacchetti di sperma. Ma pensò a Harman, ai suoi occhi intelligenti, amorevoli, al suo tocco gentile e fermo, al suo corpo anziano ma appassionato, e si toccò di nuovo il ventre.
«Aman» mormorò a se stessa. «Figlio di Harman e di Ada.»
Scosse la testa. Le ciance di Odisseo, nelle ultime settimane, le avevano riempito la testa di sciocchezze. Il giorno prima, seccata, aveva atteso che le decine e decine di discepoli, sceso il buio, si allontanassero verso il padiglione fax o le tende (più verso le tende che non verso il nodo fax) e aveva chiesto bruscamente a Odisseo per quanto tempo ancora si sarebbe trattenuto a villa Ardis.
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