Dan Simmons - Ilium

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Ilium: краткое содержание, описание и аннотация

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Attenzione! Thomas Hockenberry è stato un insegnante universitario di storia, con una vita assolutamente normale. Per quale motivo, allora, si trova adesso ad assistere alla Guerra di Troia, al servizio degli dèi dell’antica Grecia? E perché gli stessi dèi sembrano padroneggiare una tecnologia avanzatissima, con la quale cercano di alterare il corso degli eventi e di uccidersi a vicenda? Intanto, in un futuro lontano migliaia di anni, su una Terra dove i pochi abitanti rimasti hanno come sola occupazione il divertimento, solo un uomo ricorda ancora l’antica arte della lettura e la sfrutta cercando di risolvere l’enigma più grande di tutti: chi ha costruito le macchine che governano il pianeta? Dall’autore che ha cambiato la fantascienza, la sua saga più intensa e appassionante, dove il gusto per la ricostruzione storica si mescola con i grandi scenari di un futuro apocalittico e affascinante.
Vincitore del premio Locus per il miglior romanzo di fantascienza in 2004.
Nominato per il premio Hugo per il miglior romanzo in 2004.

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Achille scuote la testa, spazientito. «Due ore, allora. Porterò i miei generali più degni di fede. E ogni acheo che non mi seguirà in guerra contro gli dèi oggi sarà ombra nell’Ade prima di notte.»

Gira le spalle a Ettore e mi afferra per il braccio, con tale forza che quasi grido di dolore. «Portami al mio accampamento, Hockenberry.»

Impacciato, cerco il medaglione TQ.

Il vento ha spinto Orphu, librato a mezz’aria, per cinquecento metri lungo la spiaggia, nei frangenti tra due lunghe nere navi achee; devo lasciare Achille e i suoi condottieri per ricuperare il moravec. Grazie alla bardatura di levitazione, non c’è attrito; mi faccio prestare una fune dai greci lì fermi a guardare, la lego intorno a una delle cinghie e trascino fuori dell’acqua il guscio butterato e lo riporto sulla spiaggia, sotto gli occhi stupiti degli eroi dell’ Iliade.

È chiaro che nel campo acheo si è discusso parecchio. Diomede dice ad Achille che metà degli uomini prepara le navi per salpare, mentre l’altra metà si prepara a morire. L’idea di resistere agli dèi (altro che attaccarli!) è non solo follia, ma bestemmia per tutti quelli che hanno visto gli dèi in azione. Nella riunione di consiglio, Diomede stesso va vicino a sfidare Achille.

Sfoggiando la raffinata retorica per cui va famoso, Achille ricorda a tutti d’avere combattuto in singoiar tenzone contro Agamennone e Menelao e d’avere assunto legittimamente il comando degli eserciti achei. Ricorda loro che Patroclo è stato ucciso. Loda il loro coraggio e la loro fedeltà. Dice che il bottino di Ilio è niente, a paragone delle ricchezze che avranno quando metteranno a sacco l’Olimpo. Ricorda loro che può uccidere e ucciderà chiunque opponga resistenza. Tutto sommato è un discorso convincente, ma non un’allegra riunione di consiglio.

Tutto è andato a rotoli. Il mio piano prevedeva che gli eroi sfidassero gli dèi e che la guerra terminasse, che gli achei tornassero a casa e che i troiani riprendessero la solita vita e riaprissero a viaggiatori e mercanti le grandi porte della città turrita. Avevo immaginato la "Città in pace", come è illustrata quasi al centro dello scudo di Achille. E avevo pensato… sperato… che Achille ed Ettore si sacrificassero umilmente per il bene comune, non che coinvolgessero nella loro battaglia decine di decine o centinaia di migliaia di altri guerrieri.

Anche il piano di condurre sull’Olimpo Ettore e Achille per la loro fatale aristeia è destinato a fallire. Contavo di portare i due eroi uno alla volta e che gli dèi non si rendessero conto del pericolo finché non l’avessero visto discendere su di loro come una fulminante tempesta greca e troiana. Ma l’attacco ad Apollo e Atena nella stanza di Scamandrio ci ha fatto perdere anche questo piccolo elemento di sorpresa.

E ora?

Controllo l’orologio. Avevo promesso al piccolo robot di andarlo a prendere. Ma ormai la Grande Sala degli Dèi e tutto l’Olimpo saranno di sicuro simili a un nido di calabroni infuriati. Le probabilità di telequantarmi lì e di venirne via senza che nessuno mi veda sembrano assai prossime a zero. Chissà che cosa faranno, Ettore e Achille, se non ritorno qui.

Problema loro, decido. Faccio per tirarmi sulla testa l’Elmo di Ade, ricordo d’averlo prestato a Mahnmut, sospiro, visualizzo le coordinate per il lato ovest del lago della caldera sulla cima dell’Olimpo e mi telequanto.

È davvero un nido di calabroni! Il cielo è pieno di cocchi che saettano avanti e indietro sopra il lago. Vedo decine e decine di dèi in piedi lungo la costa: alcuni segnano a dito, alcuni scagliano nel lago lance di pura energia. L’acqua ribolle per chilometri, nella caldera. Altri dèi gridano con voce amplificata, dichiarano che Zeus ordina a tutti di radunarsi nella Grande Sala. Ancora nessuno si è accorto di me, c’è troppa confusione, ma è solo questione di un minuto, forse meno, prima che qualcuno individui un non-dio nel loro esclusivo country club.

All’improvviso l’acqua ribolle solo a qualche metro da me e lascia emergere una sagoma vaga, visibile solo perché le gocce grondano da una superficie invisibile. Poi il piccolo robot scuro si materializza, si toglie l’Elmo di Ade e me lo restituisce. «Sarebbe meglio se ce ne andassimo in fretta» dice nella mia lingua. Prendo in silenzio l’elmo e il robot non ritrae il braccio, perché lo afferri e includa anche lui nel campo TQ. Gli stringo il braccio e con un grido lo lascio subito. Il metallo o la plastica o quale che sia la sostanza della sua epidermide è bollente. La palma della mia mano è già rossa e cominciano a formarsi delle vesciche.

Due cocchi scendono in picchiata dalla nostra parte. Balenano fulmini. L’aria puzza di ozono.

Prendo per la spalla il robot e aziono il medaglione; so che nessuno di noi ne uscirà vivo, ma dico a me stesso che se non altro, come avevo promesso, sono tornato a prendere la piccola macchina intelligente. Questo, almeno, l’ho fatto.

49

ANELLO EQUATORIALE

Per le prime due settimane Daeman e Harman vissero di lucertole nella pozza inquinata. Persero tanto di quel peso che le termotute si ridussero di due misure per restare a contatto della pelle.

Erano rimasti sconvolti per la morte di Savi. Quando Calibano (che non aveva abbandonato il cadavere della loro amica) se n’era andato, per un minuto buono si erano limitati a stare seduti, intontiti, sulla colonna di roccia, tre metri sopra la fetida acqua. Daeman aveva in mente un unico pensiero: "Ora Calibano torna a prenderci. Ora Calibano torna a prenderci". Poi Harman aveva rotto l’incantesimo: si era tuffato, piedi in avanti, nell’acqua puzzolente ed era sparito.

Daeman avrebbe ululato di terrore, se ne avesse avuto la forza, ma era riuscito solo a fissare l’increspata pellicola d’impurità: Harman l’aveva abbandonato. Dopo quelli che gli erano parsi interminabili minuti, Harman era emerso, ansimando e sputacchiando e tenendo in mano tre oggetti: due maschere osmotiche e la pistola di Savi. Si era issato sul piano di roccia più basso e Daeman, finalmente libero dalla paralisi, era sceso accanto a lui.

«È profonda solo tre metri» aveva ansimato Harman. «Altrimenti non avrei mai trovato questa roba.» Aveva dato a Daeman una maschera osmotica e si era messo l’altra, sopra il cappuccio della termotuta, senza assicurarsela sul viso. Poi aveva soppesato la pistola.

«Funziona?» aveva chiesto Daeman, con voce tremante. Aveva paura di stare così vicino all’acqua, era sicuro che da un momento all’altro sarebbe spuntato il lungo braccio di Calibano che l’avrebbe tirato di sotto. Continuava a tornargli in mente il ripugnante schiocco delle fauci del mostro che squarciavano la gola di Savi e le spezzavano la spina dorsale.

«C’è solo un modo per saperlo» aveva mormorato Harman. Anche a lui tremava la voce: Daeman non avrebbe saputo dire se per il bagno nell’acqua gelida o per il terrore.

Harman aveva puntato l’arma come aveva visto fare a Savi, infilato il dito nel ponticello del grilletto e premuto. Un cerchio d’acqua sotto la parete più lontana si era sollevato in una fontana irregolare alta un metro, mentre centinaia di dardi fendevano la superficie.

«Sì!» aveva gridato Daeman, e la voce era echeggiata nella piccola caverna. «’Fanculo Calibano!»

«Dov’è lo zaino di Savi?» aveva chiesto sottovoce Harman.

Daeman aveva indicato dov’era caduto, dietro la colonna di roccia su cui stava la vecchia. Tutti e due erano strisciati fino allo zaino e avevano frugato dentro. La torcia elettrica funzionava ancora. C’erano altri tre caricatori per la pistola, ciascuno con sette pacchetti di plastica con i dardi. Harman aveva scoperto come staccare il caricatore già inserito e aveva contato le cariche che vi restavano. Due.

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