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Jack Vance: Le case di Iszm

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Jack Vance Le case di Iszm

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Che cosa darebbero gli architetti, gli urbanisti, i pianificatori, gli uomini politici per avere una delle case che si seminano, che nascono e crescono come una pianta qualsiasi? E chi avesse in esclusione i semi di una simile pianta, quale gigantesca speculazione edilizia potrebbe organizzare? Su questo tema così attuale per noi, Jack Vance ha costruito un piacevole e movimentato romanzo, in cui le straordinarie case di Iszm sono oggetto di una guerra segreta fra i desperados di mezza galassia.

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— Mi avete frainteso, o non mi sono spiegato bene. Ma se anche fosse così, il che non è, sussisterebbe sempre la necessità di tipi diversi di abitazione, tanto sulla Terra che sui pianeti ai quali vendete le vostre case.

— Siete davvero irrazionale — intervenne Omon Bozhd — e vi prego, Farr Sainh, di non considerare offensiva questa parola. Lasciate che mi spieghi meglio. Voi dichiarate che sulla Terra c’è bisogno di case. Sulla Terra c’è anche un eccesso di ricchezze, tanto che sono allo studio molti progetti per poterle impiegare. Queste ricchezze potrebbero risolvere il problema delle abitazioni in un batter d’occhio, purché lo volessero i possessori delle ricchezze. Ma essendo la cosa, a quanto voi dite, molto improbabile, avete posto lo sguardo su noi Iszici, che al confronto siamo relativamente poveri, nella speranza che finiamo col dimostrarci più comprensivi dei vostri plutocrati. Ma scoprendo che abbiamo i nostri interessi da difendere, ve la prendete con noi… ecco perché vi giudico irrazionale.

Farr rise. — Questa è una visione distorta della realtà — dichiarò. — È vero che siamo ricchi. Perché lo siamo? Perché cerchiamo sempre di produrre il massimo col minimo sforzo. E le case isziche rappresentano la minimizzazione degli sforzi.

— Interessante — mormorò Zhde Patasz e Omon Bozhd assentì saviamente. Il calesse si sollevò per sorvolare un folto di cespugli grigi da cui spuntavano grosse bacche nere. Più avanti, si stendeva una lingua di spiaggia su cui si frangeva il calmo mondo oceanico di Pheadh. Il veicolo puntò dritto sulla distesa, dirigendosi verso un isolotto poco lontano.

Con voce solenne, quasi sepolcrale, Zhde Patasz dichiarò: — Ora vi sarà mostrato qualcosa che a ben pochi è concesso di vedere; una stazione sperimentale dove progettiamo e creiamo nuove case.

Farr cercò di trovare una risposta adatta per esprimere il proprio interessamento e la propria gratitudine, ma Zhde Patasz non badava più a lui, così stette zitto.

Quella specie di piattaforma procedeva sul pelo dell’acqua, lasciandosi dietro una lieve scia di spuma candida. La luce dell’XI dell’Auriga scintillava sulla distesa azzurra e Farr pensava che uno spettacolo simile era uguale a tanti panorami marittimi terrestri, se non fosse stato per la presenza di quello strano veicolo, di quegli uomini dalla pelle lattiginosa, e per la forma inusitata degli alberi che crescevano sugli isolotti. In verità, si trattava di alberi che non aveva mai visto nemmeno su Iszm: bassi, tozzi e massicci, con un groviglio di rami neri. Le foglie erano costituite da strisce carnose color marrone, e parevano in perpetuo movimento.

La piattaforma rallentò, dirigendosi verso la spiaggia dell’isola; si fermò a cinque o sei metri da terra. Uder Che saltò nell’acqua che gli arrivava al ginocchio, e avanzò cautamente verso il litorale, portando una scatola nera. Gli alberi reagirono alla sua presenza, inchinandosi dapprima verso di lui, poi arretrando, come in preda all’orrore, e sciogliendo l’intrico dei rami. Dopo qualche istante s’era aperto un varco sufficiente perché potesse passarvi il calesse che, arrivato all’altezza della spiaggia, penetrò nel varco stesso. Uder Che risalì a bordo, e i rami tornarono a intrecciarsi in un groviglio impenetrabile.

— Questi alberi ucciderebbero chiunque non mostrasse il proprio salvacondotto, costituito dalle radiazioni emesse da questa scatola — spiegò Zhde Patasz. — Una volta, i piantatori organizzavano delle spedizioni per danneggiarsi a vicenda, e perciò era necessaria la presenza di alberi sentinella. Ora le cose sono cambiate, ma noi siamo conservatori, e ci teniamo a mantenere in vita le antiche usanze.

Farr si guardava intorno, senza nascondere la propria curiosità, mentre Zhde Patasz lo osservava divertito.

— Quando sono venuto a Iszm — disse finalmente Farr — speravo che mi si offrisse un’occasione come questa, ma confesso che non ci contavo troppo. Perché mi fate vedere queste cose?

Zhde Patasz, impassibile come sempre, aspettò un momento prima di rispondere. — La vostra domanda non ha ragion d’essere — dichiarò. — Vi ho condotto qui perché così usa fare un proprietario con un ospite di riguardo.

— Può darsi che sia così — ammise Farr sorridendo — ma forse esistono anche altri motivi, o sbaglio?

— Sbagliate. La scorreria dei Thord continua a turbarci e siamo ansiosi di saperne di più in proposito. Ma non preoccupiamoci di questo, oggi. Essendo un botanico, suppongo che vi interesseranno i ritrovati miei e di Uder Che.

— Sicuramente. — Nelle due ore successive Farr esaminò case con baccelli a contrafforte costruite per i mondi a forte attrazione gravitazionale di Cleo 8 e di Martinon’s Fort, e case leggere coi baccelli che sembravano palloni per Fei dove la gravità era notevolmente inferiore a quella di Iszm. C’erano alberi costituiti da un grosso tronco a colonna con quattro enormi foglie che partivano dalla sommità e s’inarcavano fino a terra in modo da formare degli atri a cupola, attraverso cui filtrava una luce verde. C’erano alberi dal tronco massiccio che sorreggevano un unico baccello a torre, con foglie lanceolate che spuntavano tutt’intorno alla base: si trattava di torri di guardia per le tribù feudali di Eta dello Scorpione. In un area recintata crescevano alberi capaci di muoversi in diverso modo, e di sentire.

— Si tratta di una nuova area di ricerche, molto avventurosa — dichiarò Zhde Patasz. — Ci stiamo gingillando con l’idea di creare alberi capaci di svolgere determinate mansioni, come turni di guardia, esplorazione mineraria, cura di macchine. So che sull’atollo di Duroc, il mastro piantatore ha creato un albero che prima produce fibre colorate, poi le intreccia per fabbricare stuoie dai disegni caratteristici. Anche noi siamo riusciti a far qualcosa di bizzarro: per esempio, sotto quella cupola siamo riusciti a creare una fusione che parrebbe impossibile da ottenere se non si conoscono le basi dell’adattamento.

Farr espresse educatamente la propria meraviglia e curiosità. Aveva notato che Omon Bozhd e Uder Che prestavano un’attenzione rispettosa alle parole del piantatore, come se celassero un significato portentoso. E d’improvviso Farr capì che, qualunque fosse il motivo della cerimoniosa ospitalità di Zhde Patasz, esso stava per essergli rivelato.

Con la cadenza acuta degli aristocratici iszici, Zhde Patasz stava intanto continuando: — Il meccanismo, se così si può dire, di questa congiunzione, non è difficile, in teoria. Il corpo animale per vivere necessita di cibo e ossigeno, oltre a qualche altro elemento ausiliario. Il sistema vegetale, come sapete, produce tali sostanze, e rielabora gli escrementi e i rifiuti del corpo animale. Era una tentazione per noi trovare un sistema che riunisse i due, coll’unico aiuto di una fonte esterna di nutrimento. Quanto abbiamo raggiunto, anche se per voi sarà sbalorditivo, è tuttavia ancora rozzo, sinora non abbiamo ottenuto una vera e propria fusione dei tessuti: tutti gli interscambi avvengono attraverso membrane semipermeabili che isolano i fluidi animali e quelli vegetali. Cionondimeno, è già qualcosa. — Parlando, Zhde Patasz si era diretto alla volta di un emisfero giallo-verdino su cui pendevano e si agitavano fronde gialle. Omon Bozhd e Uder Che si tenevano discretamente in disparte. Farr li guardò incerto.

— Come botanico, sono certo che resterete affascinato dal risultato da noi ottenuto — dichiarò Zhde Patasz.

Farr non sapeva cosa pensare. Che cosa volevano mostrargli gli Iszici?… Era pericoloso? Veramente, non avevano bisogno di ricorrere a un sotterfugio per avere la meglio su di lui, e inoltre Zhde Patasz era legato dalle eterne leggi dell’ospitalità. No, non poteva esserci pericolo. Farr si decise, ed entrò sotto la cupola. Al centro, c’era un’aiuola rialzata di terriccio fertile, su cui posava una bolla, una sacca di gomma gialla. La superficie della sacca era venata di lucidi filamenti bianchi e di tubicini membranosi che ne emergevamo alla sommità per formare un tronco color grigiastro, il quale, a sua volta, sorreggeva una corona simmetrica di rami e di foglie verde scuro a forma di cuore. Ciò fu quanto Farr vide alla prima occhiata, ma osservando poi l’interno della bolla vide che conteneva il corpo denudato di un Thord. I piedi posavano su un sedimento giallo alla base della sacca, la testa era posta direttamente sotto il tronco, le braccia erano spalancate e non terminavano con le mani, ma con globi bernoccoluti di fibra grigia dai quali si dipartivano funi che andavano a infilarsi nel tronco. La calotta cranica, scoperchiata, metteva a nudo l’ammasso di sferule arancione che costituiva il cervello del Thord, su cui pendeva una specie di nuvoletta, che, vista più da vicino, si rivelò per un groviglio di filamenti quasi invisibili, che s’intrecciavano formando una fune unita al tronco. Gli occhi erano coperti dalle membrane spesse, marroni, che costituivano le palpebre dei Thord.

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