— Non si trattava certo di un turista come me — ribatté Farr con una breve risata. — Mi rifiuto di essere coinvolto, sia pure indirettamente, nella faccenda.
— Perdonatemi — lece Zhde Patasz inchinandosi. — Ma sono certo che sarete abbastanza indulgente e comprensivo da capirci. Dobbiamo proteggere i nostri investimenti. Siamo uomini d’affari.
— Non molto abili — corresse Farr.
— Che interessante opinione. E perché no?
— Il vostro prodotto è ottimo — spiegò Farr — ma il mercato è poco economico. Vendite limitate e prezzi esorbitanti.
Zhde Patasz agitò con gesto indulgente il suo occhialetto. — Le teorie sono molteplici…
— Ho studiato parecchie analisi del commercio delle case — disse Farr — e sono tutte concordi in un particolare.
— Quale?
— Che i vostri metodi sono inefficienti. C’è un unico venditore che ha il monopolio per ogni pianeta, e questo sistema non può giovare che al rappresentante. K. Penche è multimiliardario, ma è anche l’uomo più odiato della Terra.
Zhde Patasz tornò ad agitare pensoso l’occhialetto. — K. Penche ora sarà infelice, oltre che odiato.
— Lieto di saperlo. Ma perché dite così?
— L’incursione ha distrutto gran pare della sua quota.
— Non avrà più case?
— Non quelle che aveva ordinato.
— Be’ — commentò Farr — non mi pare che ci sia una gran differenza. Riuscirà comunque a vendere tutto quello che gli manderete.
— È un Terrestre… un mercante… — spiegò Zhde Patasz con impazienza. — Noi siamo Iszici e coltivatori di piante per istinto. Il primo piantatore risale a duecento milioni di anni fa, allorché Dium, l’antrofibio primordiale, strisciò fuori dall’oceano. Con l’acqua salata che gli usciva ancora dalle branchie, cercò e trovò rifugio in un baccello. È il mio diretto antenato. Noi siamo diventati maestri nell’arte di coltivare le case e non possiamo permettere di dissipare questo patrimonio accumulato in tanti millenni, né di esserne derubati.
— Però, che lo vogliate o meno, qualcuno finirà col riuscirci — obiettò Farr. — C’è troppa gente senza casa, nell’universo.
— No — ribatté brusco Zhde Patasz. — Non è un’arte che si possa riprodurre con la sola ragione… sussiste tuttora un elemento magico.
— Magico?
— Non proprio, ma un contorno di magia c’è. Per esempio, noi cantiamo incantesimi ai semi che germogliano. E i semi germogliano e crescono. Senza gli incantesimi non prospererebbero. Perché? Chi lo sa? Lo ignoriamo anche noi. In tutte le fasi della crescita, e dell’allevamento delle nostre case, questo particolare elemento contribuisce a far sì che esse crescano diverse da qualunque arbusto inutile.
— Sulla Terra — disse Farr — incominceremmo dal principio, proveremmo milioni di sementi, milioni di metodi.
— Dopo mille anni riuscireste a far produrre all’albero un numero stabilito di baccelli — obiettò l’Iszico. Si avvicinò a una parete sfiorando le verdi fibre intrecciate. — Guardate questa lanugine… noi iniettiamo un liquido in un organo del baccello rudimentale. Il liquido è composto di sostanze come ammonite di nervature in polvere, cenere dell’arbusto di frunz, acetato isocromilo di sodio, polvere di meteorite Phanodana. Il liquido viene sottoposto a sei trattamenti specifici e deve essere iniettato attraverso una proboscide trasparente. Ditemi — concluse fissando Farr attraverso l’occhialetto — quanto tempo impiegherebbero i Terrestri per riuscire a far crescere questo muschio nell’interno di un baccello?
— Forse non tenterebbero nemmeno. A noi basterebbero modeste case di cinque o sei baccelli, semplici e senza elaborati ornamenti.
— Ma è un cosa rozza e volgare! — esclamò Zhde Patasz. — Lo capite, non è vero? Un’abitazione dev’essere una cosa omogenea, tutta unita, pareti, decorazioni murali, arredo, devono essere una cosa sola! A che cosa servirebbero altrimenti il nostro patrimonio di cognizioni e i nostri duecento milioni d’anni di sforzi? Qualunque ignorante è capace di impastare muschio su un muro, ma solo un Iszico è capace di farcelo crescere!
— Vi credo — ammise Farr.
Agitando l’occhialetto, Zhde Patasz continuò con ardore: — E se voi rubaste una casa femmina, e riusciste ad allevare una casa da cinque baccelli, sareste solo agli inizi. Bisogna educarla, adattarla, bisogna eliminare le parti superflue, bisogna localizzare e paralizzare i nervi dell’eiaculazione. Bisogna che le fessure, quelle che a voi sembrano porte, possano allargarsi e restringersi a volontà. L’arte di adattare una casa è importante quanto quella di coltivarla. Senza un addestramento adeguato, una casa diventerebbe un inimmaginabile fastidio… una minaccia.
— K. Penche non ha cercato di adattare alcuna delle case che gli avete mandato. Non ce n’è stato bisogno.
— Puah! Le case di Penche sono docili, senza carattere, non rivestono alcun interesse, e sono prive di bellezza e di grazia… — S’interruppe. — Non riesco a spiegarmi. La vostra lingua non ha parole per esprimere i sentimenti di un Iszico nei riguardi della propria casa. La cresce, e cresce con lei. Quando muore, le sue ceneri sono unite a quelle di lui. Ne beve il siero, ne respira il respiro. Essa lo protegge, ne plasma il pensiero. Una casa che abbia un carattere respinge gli estranei, una casa offesa è capace di ucciderli. E un manicomio, una Casa dei matti… è la dimora adatta ai criminali.
Farr lo ascoltava con profondo interesse. — Tutto ciò va bene per un Iszico, ma i Terrestri non sono così esigenti e raffinati. Per lo meno i Terrestri meno abbienti… o, come direste voi, i Terrestri di bassa casta. A loro basta una casa in cui vivere.
— E possono averle. Noi siamo ben lieti di fornirgliene. Ma dovranno ricorrere ai nostri rappresentanti accreditati.
— K. Penche?
— Sì, lui è il nostro rappresentante.
— Be’, credo che adesso andrò a dormire — disse Farr. — Sono stanco e ho mal di testa.
— Mi dispiace, ma andate pure a riposare, e domani, se vorrete, vi farò visitare la mia piantagione. Intanto, consideratevi a casa vostra.
La donna col turbante nero accompagnò Farr nel suo appartamento. Gli lavò cerimoniosamente il viso, le mani e i piedi, e spruzzò le stanze di essenze aromatiche.
Farr cadde in un sonno inquieto. Sognò del Thord, ne rivide il rude viso bruno, ne riudì la voce bassa e roca. La ferita gli bruciava e continuava a voltarsi e a rigirarsi. Finalmente il viso bruno scomparve come una luce che si spegne, e Farr poté riposare tranquillo.
Il giorno seguente, Farr si svegliò a quel sospirante sussurro che è il suono della musica iszica. Trovò a portata di mano indumenti puliti che si affrettò a indossare; poi uscì sulla balconata. Il paesaggio che si stendeva davanti ai suoi occhi era di una bellezza fantastica: il sole, la stella XI dell’Auriga, non era ancora sorto, e il cielo era di un intenso blu elettrico mentre il mare pareva uno specchio color prugna, che all’orizzonte s’incupiva fino al nero. A destra e a sinistra si ergevano le complicate case degli aristocratici di Tjiere, il cui fogliame si stagliava contro il cielo; in quella luce crepuscolare si distinguevano appena i colori: blu cupo, marrone, verde scuro, così morbidi che parevano di velluto. Sui canali galleggiavano dozzine di gondole, e più oltre, si stendeva il bazar di Tjiere dove si distribuivano, secondo un metodo di scambi non ancora ben chiaro a Farr, i beni e i manufatti che provenivano dalle fabbriche del continente meridionale e da alcuni mondi esterni.
Dall’interno della casa veniva la musica di uno strumento a corda, e quando Farr rientrò nella stanza, trovò due servitori che stavano portando un alto credenzino a scomparti, carico di vivande. Farr mangiò cialde, frutta, tuberi marini e pasticcini mentre l’XI dell’Auriga sorgeva all’orizzonte.
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