Dominando a stento l’ira, Farr si volse al capitano. — Gli credete?
— Non credo a nessuno.
— Ecco che cos’è successo. È difficile crederlo, ma è la verità. — Farr narrò l’accaduto. — … dopo che Bozhd se ne fu andato, rimasi solo a pensare. Bisognava che andassi a fondo della cosa, in un modo o nell’altro, perciò decisi di andare a parlare con gli Anderview. Bussai, e poiché nessuno rispondeva, aprii la porta della loro cabina. Erano morti tutti e due. Poi, sono venuto direttamente qui.
Dorristy non fece commenti, ma fissava Omon Bozhd, che, agitando con fare noncurante il suo inesistente occhialetto, si decise infine a dire: — La versione di Farr mi ha colpito per la sua franchezza. Credo quindi di essermi sbagliato. Non dev’esser stato lui a commettere il delitto. Ritiro le mie accuse — e uscì dalla cabina. Farr lo seguì con lo sguardo, furibondo ma trionfante.
— Dunque, non li avete uccisi voi? — domandò Dorristy.
— No di certo!
— Chi è stato?
— Secondo me, uno degli Iszici. Ma perché, non lo so.
Dorristy assentì, poi disse: — Be’, vedremo quando faremo scalo a Barstow. Vi prego di non far parola con nessuno su quanto è successo.
— Non ne avevo la minima intenzione — lo rassicurò Fair.
I cadaveri vennero fotografati e messi nel frigorifero dell’astronave, poi la cabina venne chiusa coi sigilli. Si faceva un gran chiacchierare a bordo, e Farr dovette faticare non poco per evitare che il discorso cadesse su gli Anderview.
La Terra andava avvicinandosi. Farr non aveva paura, ma provava un profondo senso di incertezza; il mistero restava insoluto: perché gli Anderview avevano tentato di giocarlo? Una volta arrivato sulla Terra avrebbe corso altri pericoli? Farr era più che mai fuori di sé. Lui non c’entrava per niente in tutti quei pasticci, e non voleva entrarci. Ma una sgradevole sensazione aveva messo radice nel suo subcosciente: nonostante tutto, era coinvolto, e non poteva far nulla per tirarsene fuori. Aveva altre cose da fare; il suo lavoro, la sua tesi, la compilazione di uno stereo che sperava di vendere a una rete radiotelevisiva.
E poi c’era qualcos’altro, una strana ansia, una pressione, come se dovesse fare qualcosa. Di tanto in tanto, veniva preso da un senso di insoddisfazione, come se fosse rimasto sepolto nelle profondità del suo cervello qualche problema che non aveva saputo risolvere. Non c’entravano né gli Anderview né il loro assassinio, non c’entrava niente. Ma era qualcosa che doveva fare… qualcosa di cui si era dimenticato, o che forse non aveva neppure mai saputo…
Omon Bozhd gli parlò una volta, nella sala comune. — Ora sapete che un pericolo vi minaccia — gli disse. — Sulla Terra non potrò aiutarvi.
Il risentimento di Farr nei suoi confronti era sempre vivissimo, e gli disse: — Probabilmente, sulla Terra sarete giustiziato per assassinio!
— No, Aile Farr, non ci sono prove contro di me.
Farr osservò con attenzione il suo scialbo viso. Iszici e Terrestri, evolutisi da ceppi diversi, avevano assunto la stessa approssimazione umanoide: uno discendeva dalle scimmie, l’altro dagli anfibi. Ma ci sarebbe mai stata comprensione fra le due razze?
— Dunque, non siete stato voi a ucciderli.
— Mi pare inutile ripetere una cosa tanto ovvia a un uomo dell’intelligenza di Aile Farr.
— Avanti, ripetetela, invece. Sono uno stupido. Li avete uccisi?
— Non è cortese da parte vostra esigere una risposta a una domanda simile.
— Benissimo, e allora fate a meno di rispondere. Ma perché avete cercato di addossare la colpa a me? Sapete benissimo che non sono stato io. Che cos’avete contro di me?
— Niente di niente — rispose Omon Bozhd con l’ombra di un sorriso. — Il delitto, se di delitto si tratta, non potrà mai esservi imputato. Gli investigatori vi rilascerebbero dopo un paio di giorni, per riprendere le indagini verso un’altra direzione.
— Perché avete ritirato la vostra accusa?
— Ho capito di essermi sbagliato. Sono un ominide, e quindi ben lungi dall’essere infallibile.
Per poco Farr non soffocò di rabbia. — Perché non la smettete di parlare per allusioni? Se avete qualcosa da dire, sputatelo fuori!
— Farr Sainh è troppo insistente. Non ho niente da dire. Ho riferito il messaggio che mi avevano incaricato di portargli; spero non si aspetti che metta a nudo la mia anima.
Farr sogghignò. — Potete star sicuro di una cosa… se mai vedrò l’occasione di mettervi i bastoni fra le ruote, non la lascerò certo perdere.
La stella che era il Sole diventava di giorno in giorno più luminosa. Man mano che la Terra si avvicinava, Farr si sentiva sempre più inquieto, al punto da non riuscire a dormire. Aveva lo stomaco sconvolto da un malore provocato dall’ansia, dalla perplessità, dal risentimento, dall’impazienza che lo divoravano. Come se tutto ciò non bastasse, la ferita alla testa continuava a dargli fastidio. Invece di guarire, continuava a prudere e a bruciare. Farr temeva di aver preso qualche infezione e la prospettiva lo allarmò: già gli pareva di veder l’infezione dilagare, i capelli che cadevano tutti, la cute del cranio raggrinzirsi assumendo il pallido colore di quella degli Iszici. E intanto, anche lo strano senso di urgenza continuava a tormentarlo. Continuava a pensare e a ripensare, ma senza costrutto, e l’unica cosa che ne ricavava era una rabbia maggiore.
Finalmente, dopo il viaggio più lungo e sgradevole che Farr avesse mai fatto, l’ Andrei Simic entrò nel sistema solare.
Il Sole, la Terra, la Luna: un arcipelago di brillanti isole tonde dopo una lunga navigazione nel nero oceano dello spazio. Il Sole si levava da un lato, la Luna tramontava da quello opposto, la Terra si stendeva dinanzi grigia e verde, color bruciato, bianca, azzurra, piena di nubi e di vento, scaldata dal sole, battuta dalle tempeste di neve, d’acqua, di sabbia, coperta di ghiacci, ombelico dell’universo, stazione d’arrivo, stanza di compensazione, magazzino, che tutte le altre razze visitavano come turisti provinciali.
Lo scafo dell’ Andrei Simic toccò terra a mezzanotte. I generatori acuirono il loro sibilo fino a che non fu più possibile udirlo, attraverso una gamma di note acutissime tenorili, baritonali, basse.
I passeggeri erano riuniti nel salone, e la presenza degli Anderview era più sensibile di quando erano ancora in vita. Tutti erano in preda a una tensione che li irrigidiva.
Le pompe sibilarono, per adattarsi a una diversa atmosfera, le luci brillarono attraverso gli oblò, il portello si aprì accompagnato da un mormorio di voci. Il capitano Dorristy entrò facendo strada a un uomo alto, dal viso duro e intelligente, i capelli cortissimi e la carnagione abbronzata.
— L’ispettore investigativo Kirdy della Squadra Speciale — presentò il capitano. — Indagherà sulla morte dei signori Anderview. Vi prego di collaborare con lui; sarete messi prestissimo in libertà.
Nessuno parlò. Gli Iszici parevano statue di ghiaccio. Per deferenza verso le usanze terrestri, avevano indossato giacca e pantaloni, ma il loro atteggiamento era improntato al disprezzo e al sospetto, come se, anche sulla Terra, fossero costretti a salvaguardare i loro segreti.
Tre agenti si unirono all’ispettore, e la tensione che regnava nella sala si acuì.
Con voce gentile e gradevole, Kirdy disse: — Non vi farò perdere troppo tempo. Vorrei parlare col signor Omon Bozhd.
L’Iszico scrutò l’ispettore attraverso l’occhialetto, ma l’ispettore, che non era mai stato nemmeno sulla Luna, e tantomeno su Iszm, non si lasciò impressionare.
— Omon Bozhd sono io.
Kirdy lo condusse nella cabina del capitano, e dopo dieci minuti un agente venne a chiamare Farr.
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