Hal Clement - Nati dall'abisso
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- Название:Nati dall'abisso
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- Год:1976
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In effetti quando ritornò, circa un’ora dopo, non mi era ancora venuta in mente. Non l’ho trovata ancora oggi.
Bert, al suo ritorno, mi portò notizie migliori di quanto avessi immaginato. Il Comitato, o almeno i componenti del Comitato che era riuscito a scovare (cominciavo a rendermi conto che era un organismo dalla composizione abbastanza fluida, e che il modo abituale per ottenere ufficialmente qualcosa consisteva nel discuterne con un quorum di propria scelta) avevano approvato la mia domanda di cittadinanza, se così si poteva chiamare, senza stare a discutere. Alcuni ingegneri del gruppo si erano interessati al problema della mia situazione e si erano messi subito all’opera. C’era da prevedere che avrebbero escogitato presto qualcosa.
Era incoraggiante. Anch’io sono una sorta d’ingegnere, anche se mi occupo della materia solo in rapporto al mio lavoro principale, e ogni idea che mi era venuta in mente era andata a finire contro un muro cieco. Di solito, era una questione di procedura basilare. Non capivo in che modo fosse possibile effettuare saldature, o lavori con trapani ad alta velocità, o altre attività normali in un ambiente liquido, a una pressione superiore a una tonnellata per pollice quadrato. Quasi tutti gli utensili, per esempio, hanno motori veloci: ed è un po’ difficile immaginarli in azione, con le parti mobili immerse in un fluido sia pur moderatamente viscoso: e sotto una pressione di quel genere, come si faceva a tenerlo fuori?
Naturalmente, se quella gente era là sotto da ottant’anni o più, come aveva detto Bert, doveva avere imparato tutti i trucchi fondamentali in un ambiente simile, proprio come gli uomini hanno imparato a proprie spese l’ingegneria spaziale. Comunque, mi avrebbe fatto piacere sapere come intendevano risolvere il mio problema.
Non lo scoprii in tutti i dettagli; comunque, quelli non impiegarono molto. Circa diciotto ore (diciotto ore molto noiose) dopo che Bert mi aveva portato la notizia, ritornò con una squadra di aiutanti e cominciò a far spostare la capsula. Fu un tragitto notevole. Tornammo ad uscire e percorremmo poco meno di un chilometro, fino ad arrivare ad un’altra entrata, più ampia. All’interno c’erano parecchi grandi corridoi, anziché uno solo, che partivano dalla camera principale.
Mi rimorchiarono in uno di questi, per un buon tratto, e si fermarono davanti alla prima coppia di portelli stagni che io avessi visto dal momento del mio arrivo.
Uno era di un tipo molto normale, e io lo degnai appena di un’occhiata; l’altro era circolare, grande giusto quanto bastava per lasciar passare la mia capsula. Era situato nella stessa parete in cui si trovava quello più piccolo, a una ventina di metri di distanza. Quando ci avvicinammo, fu aperto da due degli uomini che ci precedevano a nuoto: e la capsula venne spinta all’interno. La parete cui era incardinato il portello aveva uno spessore di parecchie decine di centimetri, e il portello era di poco più sottile; immaginai che la camera interna era destinata alla depressurizzazione.
La camera era abbastanza ampia. Un lato era occupato da strumenti vari: il pezzo più facile da riconoscere era un tavolo operatorio con ampie cinghie per immobilizzare il paziente ed una serie di mani telecomandate, molto più affinate e perfezionate di quelle che ero abituato a vedere sui sommergibili da lavoro.
La parte più vasta, dove era stata situata la capsula, era quasi spoglia, e sembrava che in origine la camera operatoria fosse stata molto più piccola. Vi erano tracce indicanti che una parete spessa quanto quella che avevano varcato era stata tolta di mezzo, tra il punto in cui mi trovavo e quello dove stavano il tavolo operatorio e le apparecchiature ausiliarie. Mi sarebbe piaciuto vedere gli utensili che avevano realizzato l’impresa.
Le mie intuizioni, scoprii, erano esatte; la sezione più piccola era stata la sala di conversione originale; il portello più piccolo che vi dava accesso poteva essere collegato con il portello stagno di un sommergibile. Il problema era stato costituito dal fatto che la mia capsula di portelli non ne aveva: normalmente si apriva dividendosi in due.
Bert scrisse le istruzioni per me, mentre gli altri uscivano.
«Quando ce ne saremo andati tutti e il portello sarà chiuso, per mezzo di pompe, la sala verrà portata alla pressione del livello del mare. Allora sopra il tavolo operatorio si accenderà una luce verde, ma comunque lo capirai lo stesso… sarai in grado di aprire la capsula. Quando potrai uscire, vai al tavolo e stenditi. Fissati le cinghie intorno al corpo e alle gambe. Non importa se le braccia restano libere o no. Quando sei fissato al tavolo, premi il pulsante rosso che puoi vedere da qui.» E me lo indicò. «È alla portata della tua mano destra, come vedi. Una delle mani artificiali ti consegnerà un recipiente di sonnifero. Bevilo e rilassati. Non si potrà fare altro, finché sarai cosciente.»
«Perché?»
«Dovrai venire collegato a una macchina cuore-polmone, durante la metamorfosi. Non preoccuparti. È già stato fatto parecchie altre volte. Quando sarai uscito dalla capsula e ti sarai steso su quel tavolo, sarà stato risolto l’unico problema insolito che tu presenti. Va bene?»
«Capisco. Va bene.» Bert posò la tavola e uscì a nuoto dal pesante portello, che si chiuse lentamente. Non avevo visto morse o altri blocchi del genere, ma si apriva sul corridoio, e non ne aveva bisogno. Con la superficie che presentava, una volta che nella sala la pressione avesse cominciato a ridursi, niente avrebbe potuto aprirlo, se non un terremoto.
Quando le pompe entrarono in funzione me ne accorsi subito: l’intero locale fu scosso da un fremito, e la vibrazione si tramise alla capsula. Trascorsi qualche istante, valutando il lavoro necessario per svuotare una sala di quel volume nonostante la pressione di un miglio d’acqua marina, e qualche altro chiedendomi in che modo si sarebbe comportato il fluido misterioso che sostituiva l’acqua, con il ridursi della pressione. Se si fosse trasformato in vapore, oltre al pompaggio sarebbe stata necessaria una purificazione… no, non necessariamente, a pensarci bene. La sostanza doveva essere fisiologicamente innocua, perciò probabilmente il vapore sarebbe rimasto nella sala. Naturalmente, se era infiammabile avrebbe potuto causare guai, quando avrebbero immesso l’ossigeno per farmi respirare. Be’, erano abituati a quel problema, ormai da decenni. Non avevo motivo di preoccuparmi.
Nonostante tutta l’energia gratuita che sembrava disponibile, ci volle quasi mezz’ora per vuotare la sala. Il livello del liquido calò regolarmente. La superficie, quando apparve, si mantenne liscia. Non ci furono fenomeni di ebollizione, né altri comportamenti strani. Come se fosse acqua. Non si preoccuparono di eliminarlo tutto: quando la luce verde lampeggiò, sul pavimento abbastanza irregolare erano rimaste diverse pozze.
Non persi tempo ed aprii la capsula: aspettavo da parecchio quel momento e non vedevo l’ora di uscirne. Per un momento, mi fecero male le orecchie, quando i due emisferi si divisero: le pressioni non erano state perfettamente abbinate, ma la differenza era una cosa da poco. Quando uscii, rallentai i miei movimenti, però. Avevo crampi alle braccia e alle gambe e per qualche istante mi fu quasi impossibile camminare, fosse pure per arrivare fino al tavolo operatorio. Impiegai parecchi minuti a riattivare la circolazione, prima di poter fare un altro passo.
Il tavolo era comodo. Pur di potermi stendere, in quel momento mi sarebbe sembrato comodo anche il pavimento di pietra. Mi fissai alla cintura e al petto l’ampia cinghia a rete, e poi, naturalmente, mi accorsi che non potevo arrivare a maneggiare quelle per le gambe. Slacciai la prima cinghia, e tornai ad allacciarla dopo aver sistemato le gambe, e finalmente fui pronto per premere il pulsante del segnale.
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