Hal Clement - Nati dall'abisso
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- Название:Nati dall'abisso
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- Год:1976
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Questo fu un errore, anche se non mi tornò utile quanto forse poteva. La gamba non era abbastanza resistente per tenere giù la capsula. Si spezzò, e ancora una volta il sommergibile sparì, sotto di me. Mi affrettai a spegnere le luci, augurandomi che il mio passeggero fosse stato scrollato via dal sobbalzo. Forse si era staccato, ma non era abbastanza lontano per perdere le mie tracce. Dopo pochi secondi ricominciò a battere: ancora qualche istante, e le luci del sommergibile furono abbastanza vicine da rendere futile il mio oscuramento. Riaccesi i riflettori, per poter vedere e riprendere il duello.
Il pilota del sommergibile, adesso, ebbe l’idea di protendere la grappa verso il punto in cui la gamba si era staccata, per costringermi a girare, se volevo portarne in linea un’altra. Il mio amico sommozzatore collaborava generosamente, e per un po’ ebbi timore che mi avessero beccato. Il pilota del sommergibile era troppo intelligente per mirare ad un’altra gamba, ma riuscì a schivare i numerosi calci che io sferravo. Si accostò, cercò di afferrare qualcosa, sulla superficie esterna della capsula, ma agì troppo in fretta e sbagliò. Dovette arretrare per prepararsi ad un altro tentativo… ed io ebbi il tempo di mettere in atto una nuova idea.
Sapevo dov’era il sommozzatore. Lo vedevo, quanto bastava per indovinare da che parte avrebbe spinto la prossima volta. Cominciai a imprimere una rotazione alla capsula, tenendo lui in posizione polare, in modo che non se ne accorgesse troppo presto. Il trucco funzionò, anche se non riuscii ad ottenere una rotazione veramente rapida… non era possibile, certo, con una torsione così scarsa: ma grazie al peso della capsula era sufficiente per i miei scopi. Uno dei miei punti di forza in fisica, a scuola, era stata la meccanica. Non ero in grado di risolvere quantitativamente il mio problema attuale, perché non conoscevo né la mia velocità angolare né il momento d’inerzia della capsula, ma trovai la soluzione qualitativa. Quando la grappa si avvicinò di nuovo, spostai il mio peso per la solita manovra. Il caro passeggero tentò il trucco abituale per spingermi lateralmente, e in questo modo orientò la gamba metallica esattamente nel punto che interessava a me. Forse aveva dimenticato quello che gli avevano insegnato sul conto dei giroscopi, oppure cominciava ad essere stanco. Colpii in pieno la grappa, e ci separammo di nuovo. Se fossi stato io, ai comandi di quel sommergibile, a quel punto mi sarei stufato dell’intera faccenda.
Ma a quanto pareva, il pilota era più paziente di me; tornò a farsi avanti anche troppo presto.
Io avevo guadagnato circa cento o centoventi metri con ogni fase del duello. Avevo la spiacevole sensazione che sarei rimasto a corto di trucchi prima di coprire l’intera distanza che mi separava dalla superficie. Certamente, se lui avesse avuto la pazienza di continuare a ripetere la stessa tecnica, presto mi avrebbe lasciato in secco.
Comunque, non ebbe tanta costanza. A quanto pareva, aveva deciso che la grappa non era lo strumento più adatto. Quando si rifece sotto, la volta successiva, effettuò l’abituale abbinamento di velocità ad una certa distanza, al di sopra di me, anziché alla stessa altezza. Una piccola luce lampeggiò, sicuramente trasmettendo un segnale in codice, ed il mio amico a prova di pressione mollò la capsula e salì a nuoto verso il sommergibile. Dopo un momento ritornò, trascinandosi dietro una fune.
Avevano deciso, sembrava, che le mani umane fossero più versatili di quelle meccaniche.
Sul momento non mi preoccupai. Non c’era niente, all’esterno della capsula, che si prestasse per affrancare una corda, eccettuate le gambe metalliche: ed era già stato dimostrato che queste non erano abbastanza robuste. Ore prima, sul fondo — no, pensandoci bene, era stato molto meno di un’ora prima — il mio amico aveva sentito il bisogno di procurarsi una rete da avvolgere intorno alla sfera. Se adesso non aveva a disposizione una rete, tutto sarebbe andato per il meglio.
Ma purtroppo l’aveva. Era più grossa e pesante di quella che avevano usato sul fondo, e probabilmente era proprio per quel motivo che non se l’era portata dietro a nuoto. Quando ritornò, proprio al di sopra della capsula, cominciò a tirare la corda, e la rete uscì da uno dei portelli del sommergibile. L’attirò a sé e cominciò a stenderla in modo che la sfera, salendo, vi sarebbe finita dentro.
La prima volta fallì la manovra, ma senza merito mio: semplicemente, non riuscì a spiegare la rete in tempo. Vi incappai quando era aperta soltanto in parte. Il suo peso era mal distribuito, e perciò, automaticamente, rotolai fuori e continuai a salire. Non dovetti alzare neppure un dito. Anche il sommergibile saliva, naturalmente; perciò la rete ricadde, chiudendosi, all’estremità della fune. Il pilota fu costretto a ritirarla meccanicamente, mentre il sommozzatore mi restava abbarbicato: e dovettero ricominciare daccapo.
E così avevo guadagnato altre decine di metri.
La volta successiva aprirono la rete molto più in alto di me. Una volta completamente spiegata, era addirittura meno manovrabile della capsula, e roteando abilmente in modo che le irregolarità esterne della sfera condizionassero la direzione dell’ascesa, riuscii a portarmi abbastanza lontano dal centro per rotolarne fuori come la volta precedente. Ci sarebbero voluti altri due sommozzatori, pensai.
Ma poi dovetti constatare che ne bastava uno. Ritirarono di nuovo la rete, il sommergibile salì di nuovo ad una certa distanza, regolò il galleggiamento in modo che si sollevasse più lentamente di me; e poi il pilota uscì per dare man forte al sommozzatore. Afferrarono ciascuno un angolo della rete e, con il sommergibile al posto del terzo vertice, formarono un ampio triangolo e riuscirono a tenerlo incentrato sopra di me. Io cercai di avvicinarmi al sommergibile, che sembrava abbandonato e che non si sarebbe spostato per tener la rete ben tesa. Ma non servì a niente. Gli uomini si mossero nella stessa direzione, lasciando che la rete calasse verso di me.
Poi me la trovai drappeggiata intorno, e non avrei saputo da che parte rotolare, anche se fossi stato in grado di farlo. I due si avvicinarono e cominciarono a legarne le cocche sotto di me.
Se avessero completato la manovra, sarei stato spacciato. Li osservai meglio che potevo, cercando di scoprire se c’era un peso maggiore della rete da una parte che dall’altra. Individuai quella che mi sembrò una possibilità di interrompere la loro attività, mentre guardavo meglio, e purtroppo ne approfittai.
Uno degli uomini era vicino alla capsula, un po’ più in basso, ed era impegnato ad accostare una sezione della rete. Forse era il pilota… la luce era buona, ma non persi tempo a controllare. Comunque, non conosceva la disposizione delle gambe metalliche come la conosceva il suo compagno. Era proprio sulla traiettoria di una di esse: e la feci scattare.
La mia intenzione, se pure ne avevo una (in realtà non persi tempo a pensare) era di toglierlo di mezzo per avere una possibilità di ruzzolare fuori dalla rete. Certamente non avevo intenzione di causargli lesioni gravi o permanenti. Il disco terminale della gamba, però, lo colpì al fianco destro: difficilmente avrebbe potuto evitare di spezzargli qualche costola. Lo scaraventò lontano, come uno squalo colpito a testate da un delfino. La corda che stringeva volò praticamente via dalla sua mano destra, e un utensile che non riuscii a identificare gli cadde dalla sinistra. Cominciò a sprofondare.
L’altro gli fu accanto prima che uscisse dal cerchio di luce. Evidentemente aveva perso i sensi; il suo corpo era inerte, quando il suo compagno lo rimorchiò in alto, verso il sommergibile. Io non stetti ad osservare con molta attenzione, un po’ perché cercavo di rotolare fuori dalla rete, e un po’ perché ero pentito di ciò che avevo fatto.
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