Robert Silverberg - Morire dentro

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Morire dentro: краткое содержание, описание и аннотация

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Morire dentro: è questa la sorte che attende David Selig, il telepate, profilandosi come un incubo all’orizzonte della sua esistenza. Una minaccia a un tempo psichica e biologica corrode i suoi poteri: e per Selig, abituato a «spiare» gli angoli più morbosi e reconditi dei suoi simili, a nutrirsi delle emozioni altrui, il lento affievolirsi delle proprie capacità è un graduale stillicidio. Robert Silverberg ci trasporta con questo romanzo (uno dei suoi ultimi) nella mente del telepate, sicché il lettore può provare, in «soggettiva», l’incredibile esperienza dl guardare in un altro universo, condividendo le emozioni dl una terza vista. Selig raggiunge cosi l’età in cui il suo dono potrebbe maggiormente giovargli: e invece si trova nuovamente respinto da una società che non è pronta per quelli come lui, e in cui anche il rapporto con un essere che possiede i suoi stessi poteri ESP diventa ambiguo e pericoloso. Moderno «Slan», David Selig si trova di fronte a un enigma troppo vasto per la sua fragile personalità: perchè sta perdendo il suo potere mentale? Si tratta solo di un male biologico, o di una minaccia più insidiosa? E che cosa sarà di lui al termine di questa incredibile «odissea nel pensiero»? Come ha scritto la rivista Analog: «Questo romanzo è intensamente umano… intensamente vero. I lettori ricorderanno
per una generazione, e forse ancor più».
Robert Silverberg non ha bisogno di presentazioni;
ha scritto di lui: «E il nostro autore migliore. Di volta in volta ha costantemente ampliato i parametri della fantascienza».

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Lei esce dal bagno indossando un lucido completo color porpora, e gli orecchini di cristallo che le ho regalato per il suo ventinovesimo compleanno. Quando le faccio visita tenta sempre di ricorrere a qualche piccolo tocco sentimentale per tenerci uniti; questa sera è la volta degli orecchini. La nostra amicizia, di questi tempi, è di qualità piuttosto fragile, mentre attraversiamo in punta di piedi, senza far rumore, il giardino dove giace sepolto il nostro antico odio. Ci abbracciamo, una stretta da fratello e sorella. Un profumo piacevole. — Salve — dice lei. — Mi spiace di essermi fatta trovare in disordine quando sei arrivato.

— È colpa mia. Era troppo presto. Ad ogni modo, non eri affatto in disordine.

Mi conduce in soggiorno. Si tiene bene. Judith è una bella donna, alta ed estremamente esile, con un aspetto esotico, capelli neri, carnagione scura, zigomi sporgenti. Il tipo snello focoso. Ritengo che sia considerata molto sexy, se si prescinde dal fatto che c’è qualcosa di crudele nelle sue labbra sottili e nei suoi occhi bruni guizzanti, e che quella crudeltà, che è aumentata in questi anni di divorzio e di scontentezza, allontana la gente. Ha avuto amanti a decine, all’ingrosso, però ha avuto ben poco amore. Tu e io, sorellina, tu e io. Goccioline d’acqua.

Prepara la tavola mentre io vuoto un bicchierino per lei, il solito, Pernod con ghiaccio. Il piccolo, grazie a Dio, ha già mangiato; odio vederlo a tavola. Gioca col suo affare di plastica e mi concede occasionali occhiate acide. Judith e io facciamo tintinnare insieme i nostri bicchieri, un gesto teatrale. Lei abbozza un sorriso senza calore. — Alla salute — diciamo. Alla salute.

— Perché non ritorni in città? — chiede lei. — Potremmo vederci più spesso.

— Là la vita costa meno. Che bisogno c’è di vederci più spesso?

— Chi abbiamo di altri?

— Tu hai Karl.

— Io non ho né lui né nessun altro. Ho soltanto il mio piccino e mio fratello.

Ripenso a quando tentai di ammazzarla nella sua culla. Lei non ne sa niente. — Noi siamo veramente amici, Jude?

— Adesso lo siamo. Finalmente.

— Non siamo stati eccessivamente entusiasti l’uno dell’altra, in tutti questi anni.

— La gente cambia, Duv. Cresce. Io ero stupida, proprio una testa di cazzo, così mi ero ficcata in testa che non potevo far nient’altro che odiare tutti quelli che mi stavano intorno. Adesso è tutta acqua passata. Se non mi credi, leggimi nel pensiero e vedi da te stesso.

— Tu non hai bisogno che io vada a frugare là dentro.

— Avanti! — dice lei. — Dacci un’occhiata come si deve e renditi conto se io non sono cambiata nei tuoi riguardi.

— No. Preferisco di no. — Mi servo un altro goccio di rum. La mano trema un po’. — Non devi dare una controllatina alla salsa per gli spaghetti? Può darsi che bolla troppo.

— Lasciala bollire. Non ho finito il mio bicchierino. Duv, sei ancora turbato? Riguardo al tuo potere, voglio dire.

— Sì. Ancora. Peggio che mai.

— Che cosa pensi che stia succedendo?

Scrollo le spalle. Spensierato vecchione che non sono altro. — Sto perdendolo, ecco tutto. È come per i capelli, penso. Ne hai un mucchio quando sei giovane, poi sempre meno, sempre meno, e alla fine resti pelato. Al diavolo! Non mi ha mai procurato niente di buono.

— Non lo pensi veramente.

— Fammelo vedere tu, Jude, qualcosa di buono che mi abbia dato.

— Ti ha reso diverso. Ti ha reso unico. Tutte le volte che qualcosa di qualunque genere era sbagliata per te, tu hai sempre potuto sottrartici proprio grazie a lui, la conoscenza che tu potevi procurarti direttamente dalle menti, perché tu potevi vedere l’invisibile, perché tu potevi accostarti, vicinissimo, all’anima della gente. Un dono di Dio.

— Un dono inutile. Eccettuato quando mi sono trovato in caso di necessità.

— Ti ha reso un uomo più ricco. Più complesso, più interessante. Senza, saresti stato uno qualunque.

— Grazie al potere, ho finito per essere uno qualunque. Un nessuno, uno zero. Senza il potere avrei potuto essere una felice nullità, invece che una nullità depressa.

— Tu, Duv, provi un mucchio di compassione per te stesso.

— Ho le mie buone ragioni per provare compassione di me stesso. Dell’altro Pernod, Jude?

— No, grazie. Devo dare un’occhiata alla cena. Vuoi versare il vino?

Lei se ne va in cucina. Io mi interesso del vino; poi porto in tavola l’insalatiera. Dietro di me il piccolo comincia a cantare dei canzonatori monosillabi senza senso nel suo baritono bizzarramente adulto. Anche nel mio attuale stato di ingannevole intorpidimento sento la pressione del freddo odio del piccolo contro la mia nuca.

Judith ritorna con in mano un vassoio pieno zeppo: spaghetti, pane biscottato con burro e aglio, formaggio. Mi lancia un caldo sorriso, vistosamente sincero, quando ci sediamo a tavola. Facciamo tintinnare i bicchieri di vino l’uno contro l’altro. Mangiamo in silenzio per qualche minuto. Apprezzo gli spaghetti. Alla fine, lei dice: — Duv, posso leggerti un po’ nel pensiero, adesso?

— Sii la benvenuta.

— Dici di essere contento che il potere se ne va. Tutta questa messinscena è per me o per te? Perché tu stai facendo fesso qualcuno, qui. Tu odii l’idea di perderlo, non è così?

— In parte.

— Moltissimo, Duv.

— Va bene, moltissimo. Sono diviso tra due sentimenti. Mi piace che sparisca completamente. Cristo, vorrei non averlo mai avuto. Ma, d’altro canto, se lo perdo, io chi sono? Dov’è la mia identità? Io sono Selig. Quello-che-legge-le-menti, non è così? Lo Stupefacente Uomo della Mente. Perciò se lo perdo… capisci, Jude?

— Capisco. Ti si legge la sofferenza in faccia. Mi spiace tanto, Duv.

— Di che cosa?

— Che tu stia perdendolo.

— Disprezzavi la mia faccia tosta quando lo usavo su di te, non è così?

— È un’altra faccenda. Era tanto tempo fa. Capisco che cosa stai attraversando adesso. Hai qualche idea del perché lo stai perdendo?

— No. Una funzione dell’invecchiamento, penso.

— C’è qualcosa che può averlo fatto arrestare?

— Ne dubito, Jude. Anzitutto io non so neppure perché ce l’ho, il dono: figurati se posso sapere come rinvigorirlo. Non so come funziona. È qualcosa che è nella mia mente, una stramberia genetica, una cosa con cui sono nato, come le lentiggini. Se le tue lentiggini cominciano a scomparire, riesci a immaginarti una qualche maniera per farle restare, ammesso che tu lo voglia?

— Non hai mai permesso che ti studino?

— No.

— Perché no?

— Non mi piace che la gente curiosi nella mia testa più di quanto riesci a fare tu — dico con dolcezza. — Non ho nessuna voglia di diventare un caso storico. Mi sono sempre tenuto nell’ombra. Se mai il mondo dovesse accorgersi di me, diventerei un paria. Probabilmente sarei linciato. Lo sai quante sono le persone alle quali ho detto su di me la verità? In tutta la mia vita?

— Una decina.

— Tre — dico io. — E preferirei non averne parlato con nessuno.

— Tre?

— Tu. Suppongo che tu sospettassi tutto da tanto tempo, ma non sei arrivata a esserne sicura prima dei sedici anni, ricordi? C’è poi Tom Nyquist, che non ho più rivisto. E una ragazza che si chiama Kitty; anche lei non l’ho più rivista.

— E quella brunetta alta?

— Toni? Non gliel’ho mai detto esplicitamente. Ho cercato di tenerglielo nascosto. Lo ha scoperto indirettamente. Un casino di gente può averlo scoperto indirettamente. Io, però, l’ho rivelato solo a tre persone. Non ho nessuna voglia di passare per anormale. Perciò lascia che se ne vada. Lascialo crepare. Che sollievo.

— Invece, tu hai bisogno di tenerlo stretto.

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