Robert Silverberg - Morire dentro

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Morire dentro: краткое содержание, описание и аннотация

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Morire dentro: è questa la sorte che attende David Selig, il telepate, profilandosi come un incubo all’orizzonte della sua esistenza. Una minaccia a un tempo psichica e biologica corrode i suoi poteri: e per Selig, abituato a «spiare» gli angoli più morbosi e reconditi dei suoi simili, a nutrirsi delle emozioni altrui, il lento affievolirsi delle proprie capacità è un graduale stillicidio. Robert Silverberg ci trasporta con questo romanzo (uno dei suoi ultimi) nella mente del telepate, sicché il lettore può provare, in «soggettiva», l’incredibile esperienza dl guardare in un altro universo, condividendo le emozioni dl una terza vista. Selig raggiunge cosi l’età in cui il suo dono potrebbe maggiormente giovargli: e invece si trova nuovamente respinto da una società che non è pronta per quelli come lui, e in cui anche il rapporto con un essere che possiede i suoi stessi poteri ESP diventa ambiguo e pericoloso. Moderno «Slan», David Selig si trova di fronte a un enigma troppo vasto per la sua fragile personalità: perchè sta perdendo il suo potere mentale? Si tratta solo di un male biologico, o di una minaccia più insidiosa? E che cosa sarà di lui al termine di questa incredibile «odissea nel pensiero»? Come ha scritto la rivista Analog: «Questo romanzo è intensamente umano… intensamente vero. I lettori ricorderanno
per una generazione, e forse ancor più».
Robert Silverberg non ha bisogno di presentazioni;
ha scritto di lui: «E il nostro autore migliore. Di volta in volta ha costantemente ampliato i parametri della fantascienza».

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In quegli anni fu sempre così: un viaggiatore senza limiti, uno sfarzoso voyage. Però i poteri declinano. Il tempo sbianca i colori sulle visioni più belle. Il mondo si fa sempre più grigio. L’entropia ci butta giù. Tutto svanisce. Tutto se ne va. Tutto muore.

13

L’oscuro, sconnesso appartamento di Judith è pieno di odori sgradevoli. La sento in cucina affaccendata, mentre rovescia spezie nella pentola: pepe piccante, origano, aceto aromatico, chiodi di garofano, aglio, senape in polvere, olio di sesamo, polvere di radice di curcuma, e Dio solo sa cos’altro. Il fuoco è acceso e il calderone gorgoglia. La sua famosa salsa piccante per gli spaghetti è in lavorazione, un miscuglio formato da componenti misteriosi, in parte di ispirazione messicana, in parte di provenienza cinese provincia dello Szechwan, in parte di Madras, in parte pura invenzione di Judith. La mia infelice sorella in effetti non è proprio il tipo della donna di casa, ma i pochi piatti che riesce a cucinare li fa straordinariamente bene, e i suoi spaghetti sono famosi su tre continenti; sono convinto che ci siano uomini che vanno a letto con lei soltanto per avere il privilegio di cenare qui.

Sono arrivato inaspettatamente presto, mezz’ora prima del tempo fissato per l’appuntamento, cogliendo Judith impreparata, non ancora vestita; perciò me ne sto per mio conto mentre lei prepara la cena. — Versati da bere — mi grida. Vado alla credenza e mi verso un cicchetto di rum scuro, poi entro in cucina per prendere i cubetti di ghiaccio. Judith, tutta eccitata, con indosso una vestagliela, gira qui e là furiosamente, scegliendo le spezie con il fiato sospeso. Lei fa tutto con frenesia. — Sono da te in dieci minuti — mi dice tutta affannata, mentre cerca il macinino del pepe. — Il piccolo fa troppo fracasso per te?

Allude a mio nipote. Si chiama Paul, in onore di nostro padre, che Dio lo abbia in gloria. Lei però non lo chiama mai per nome, ma soltanto “il bimbo”, “il piccolo”. Ha quattro anni. Figlio di un divorzio, destinato a essere sempre teso come sua madre. — Non mi infastidisce per niente — la rassicuro, e ritorno nel soggiorno.

L’appartamento è uno di quelli vecchi, immensi del West Side, spaziosi e con i soffitti alti, che portano con sé un’aura di distinzione intellettuale per il semplice fatto che un gran numero di critici, poeti, drammaturghi e coreografi hanno vissuto in case simili, proprio da quelle parti. Un soggiorno enorme con tante finestre che danno su West End Avenue; una sala da pranzo protocollare; una grande cucina; una camera da letto da signori; la camera del bambino; la camera per la domestica; doppi servizi. Tutto questo per Judith e il suo cucciolo. L’affitto è alle stelle, però Judith riesce a farvi fronte. Prende molto più di mille dollari al mese dal suo ex, e guadagna, di proprio, un modesto ma decente stipendio per vivere come curatrice e traduttrice; oltre a questo ha alcune piccole entrate da un portafoglio di titoli azionali, abilmente scelti per lei, alcuni anni fa, da un suo amante di Wall Street, e che comperò con la sua parte di eredità. I nostri genitori si erano sorprendentemente rivelati grossi risparmiatori. (La mia parte se ne andò nel ripulirmi dai debiti accumulati; il tutto si liquefece come la neve a giugno). L’appartamento è ammobiliato metà alla Greenwich Village 1960 e metà alla Urban Elegance 1970, lampade ad asta scure, sedie di corda grigie, scaffali per i libri in mattonato rosso, stampe a buon mercato, bottiglie di Chianti sigillate a cera da una parte; divano in pelle, ceramiche Hopi, psichedelici paraventi in seta, tavolini da caffè con i buchi per i bicchieri, giganteschi cactus in vaso. Le sonate per clavicembalo di Bach risuonano dal sistema di amplificazione da mille dollari. Il pavimento, nero ebano e brillante come uno specchio, scintilla attraverso tappeti lussureggianti, spessi. Una pila di tascabili dai dorsi tutti malconci ingombra una parete. Davanti ci sono due casse di legno non ancora aperte, grezze, vino appena arrivato dal suo fornitore. Mia sorella fa una bella vita qui. Bella e miserabile.

Il piccolino mi fissa senza fiducia. È seduto a sei metri da me, accanto alla finestra; sta baloccandosi con un intricato giocattolo di plastica, però tiene gli occhi incollati su di me. Un bambino difficile da capire, esile e teso come sua madre, che si tiene alla larga, freddo. Non c’è mai stata una gran simpatia reciproca tra noi: io sono stato nella sua mente e so che cosa pensa di me. Per lui sono uno dei tanti uomini che ci sono nella vita di sua madre, non sono un vero zio, non sono diverso dagli innumerevoli zii-presi-a-nolo sempre prima di andare a letto; ritengo che lui pensi proprio che io sia uno dei suoi amanti che si fa vivo più spesso degli altri. Un errore comprensibile. Però mentre lui è risentito con gli altri semplicemente perché sono suoi concorrenti nell’affetto di lei, considera me con freddezza perché è convinto che io abbia causato dei dispiaceri a sua madre: è per amore di lei che non gli vado a genio. Con quanta acutezza ha individuato quell’intrecciarsi di ostilità, vecchio di decenni, e di tensioni che configura e definisce la mia relazione con Judith! Dunque sono un nemico. Se potesse mi farebbe la pelle.

Centellino il mio bicchierino, ascolto Bach, sorrido senza sincerità al piccolino, e aspiro l’aroma della salsa per gli spaghetti. Il mio potere praticamente è in riposo; qui non tento granché di servirmene, e comunque oggi la sua incisività è fiacca. Dopo un po’ Judith emerge dalla cucina e, attraversando sparata il soggiorno, dice: — Vieni a parlare con me mentre mi cambio, Duv. — La seguo nella camera da letto; lei riprende gli abiti nel bagno lì vicino, lasciando la porta aperta soltanto qualche centimetro. L’ultima volta che l’ho vista nuda aveva sette anni. Dice: — Sono contenta che tu abbia deciso di venire.

— Anch’io.

— Però sembri molto giù.

— È soltanto fame, Judith.

— Saremo a tavola tra cinque minuti. — Rumore di acqua che scorre. Lei dice qualcos’altro, ma lo scolo del lavandino lo soffoca. Mi guardo pigramente intorno nella camera da letto. Una camicia bianca da uomo, troppo grande per Judith, è appesa alla maniglia dell’armadio a muro. Sul comodino ci sono due libri, due grossi manuali, o così sembra: Neuroendocrinologia analitica e Studi sulla fisiologia della termoregolazione. Letture improbabili per un tipo come Judith. Forse è stata incaricata di tradurli in francese. Osservo che sono copie nuove, sebbene un libro sia stato pubblicato nel 1964 e l’altro nel 1969. Sono ambedue dello stesso autore: K.F. Silvestri, dottore in medicina e in filosofia.

— Ti sei iscritta a una scuola di medicina? — chiedo.

— Parli dei libri? Sono di Karl.

Karl? un nome nuovo. Dottor Karl F. Silvestri. Mi attacco leggermente alla sua mente e ne estraggo l’immagine di lui: un uomo alto vigoroso dalla faccia grave, spalle larghe, un mento forte con la fossetta, una zazzera fluente di capelli grigi. Sulla cinquantina, da quel che posso giudicare. Judith va sempre a scovare uomini piuttosto vecchi. Mentre le leggo nel pensiero lei mi parla di lui. Il suo “amico” del momento, l’ultimissimo “zio” del piccolino.

È un importante pezzo grosso al Centro Medico della Columbia, una vera autorità in fatto di corpo umano, il corpo di Judith compreso, presumo. Divorziato da poco, dopo 25 anni di matrimonio. Ah! A lei piace prenderli al volo al momento del rimbalzo. Lo ha incontrato tre settimane fa attraverso un amico comune, uno psicanalista. Si sono visti soltanto quattro o cinque volte; lui è sempre occupatissimo: riunioni di comitato in questo o in quell’ospedale, seminari, consulti. Non è passato molto tempo da quando Judith mi diceva che era a corto di uomini, forse senza uomini completamente. Evidentemente no. Deve essere un fatto serio se lei sta provando a leggere i suoi libri. A me paiono assolutamente tabù, tutti schemi e tavole statistiche e una pesante terminologia latinizzata.

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