«Per la missione di rendez-vous?»
«Esatto. A Washington, i nostri stanno discutendo con l’ambasciata russa. Presumo che il professor Zworkin avrà ordini da Mosca entro stanotte.»
«Quindi, si farà.»
Thompson annuì con aria grave. «Voi andrete incontro al nostro visitatore. Su una nave russa, a quanto sembra.»
«Big Mac scoppierà di felicità» mormorò Stoner.
«Il professor McDermott…» Tuttle lanciò un’occhiata a Thompson, poi continuò. «Il professor McDermott è quasi in stato di shock. Temo che per il futuro non potremo più affidarci alle sue decisioni.»
«Sta male?»
«Ha bisogno di riposare» disse Thompson.
«Il dottor Thompson assumerà gli incarichi amministrativi di McDermott. D’ora in poi, Thompson e il professor Zworkin dirigeranno in coppia il Progetto Jupiter.»
«Vedo. Buona fortuna, Jeff.»
«E lei» proseguì Tuttle «assumerà la direzione dei preparativi per la missione di rendez-vous.»
Stoner annuì.
«Dovremo spostarla da qui, trasferirla a un ufficio migliore…»
«Che ne dice dell’ufficio di Big Mac?» propose Stoner, serissimo.
Tuttle restò a bocca spalancata.
«Sta scherzando» intervenne precipitosamente Thompson. «Può prendersi l’ufficio vicino al mio. Troveremo un altro posto per quelli che ci lavorano adesso.»
«Okay» disse Tuttle.
«Voglio che il professor Markov lavori con me» disse Stoner.
«Markov?»
«Il linguista» spiegò Thompson.
«Infatti» disse Stoner. «Ha idee più aperte di tutti gli altri sui processi mentali degli alieni. E poi può aiutarmi a cavarmela coi russi che mi faranno da collaboratori.»
«I processi mentali degli alieni?» ripeté Tuttle.
«Linguaggio, psicologia, come preferite. Il fatto è che stiamo per incontrare qualcosa, o qualcuno, che non possiede punti in comune con nessuna lingua o razza o cultura terrestre.»
«Non penserete che quella cosa abbia un equipaggio, eh?» Tuttle spalancò gli occhi.
«Ne dubito» ammise Stoner. «Se è giunta sin qui da un’altra stella, un altro Sistema Solare, dovrebbe essere gigantesca per avere un equipaggio. Persino un solo uomo richiederebbe un’infinità di scorte alimentari, carburante, sistemi di mantenimento…»
«Come potrebbero tenere in vita un equipaggio per migliaia d’anni?» chiese Thompson.
«Ibernandolo» rispose Stoner. «Il risveglio potrebbe avvenire automaticamente una volta giunti a destinazione.»
«A destinazione?» La voce di Tuttle era un soffio. «Lei pensa che siano arrivati qui deliberatamente?»
Stoner scosse la testa. «No. Non vedo come avrebbero potuto individuare il nostro pianeta su distanze interstellari, così come noi non possiamo individuare il loro.»
«Però sono qui. Ci hanno trovati.»
«Questo è vero.»
«Forse hanno puntato su una stella simile alla loro» ipotizzò Thompson. «Una stella gialla, stabile, di tipo G.»
«Ammesso che provengano da una stella di tipo G.»
«Come minimo, è probabile.»
«Forse. Però riflettiamo su quello che ha fatto la nave quando è entrata nel nostro sistema solare» rilevò Stoner. «Per prima cosa, si è diretta verso il pianeta più grande del sistema, quello circondato dal campo magnetico più forte.»
«Ehi, è vero!»
«E dopo avergli girato attorno per un po’, è ripartita verso il pianeta interno col campo magnetico più forte.»
«Terra» sussurrò Tuttle.
«Allora è “questo” che cercano» disse Thompson. «Devono venire da un mondo che possiede una magnetosfera di buone dimensioni, e hanno pensato che solo pianeti schermati da forti campi magnetici possano ospitare la vita.»
«Potrebbe darsi» disse Stoner. «Pare logico.»
«Ma è una nave con equipaggio o automatizzata?» chiese Tuttle. «Ci sono creature a bordo, o no?»
«La mia ipotesi è che non abbia equipaggio» disse Stoner. «Perché mandare un equipaggio in una missione senza ritorno per l’ignoto? È ovvio che stanno solo dando qualche occhiata in giro, in cerca di segni di vita.»
«Però sono più di settantacinque anni che le nostre trasmissioni radio e televisive arrivano nello spazio» obiettò Thompson. «Potrebbero aver captato i nostri segnali da dozzine di anni luce di distanza.»
Stoner rise «Mi è un po’ difficile credere che una missione stellare parta sulla base di Perry Mason. »
«Non si sa mai» sorrise Thompson. «Forse c’è un comitato di supervisione interstellare che vuole farci smettere di inquinare l’etere.»
«Sì, molto sensato» convenne Stoner.
«Se però c’è un equipaggio» rifletté Thompson, tornando serio «pensa alla tecnologia che devono possedere per tenerlo in vita su tempi e distanze interstellari.»
«Impossibile!» sbottò Tuttle. «Dev’essere senza equipaggio! “Deve!”»
«Soffri molto?» chiese Cavendish.
Più che dolore, però, gli occhi di Schmidt riflettevano stanchezza, sonnolenza. Il giovane girò la testa sul cuscino, guardò fuori dalla finestra dell’ospedale.
«Mi senti? Ti do fastidio? Se vuoi me ne vado» disse Cavendish.
«No, no» disse Schmidt. «È… È solo che non so cosa dire.»
Schmidt non capiva le sofferenze che avevano trasformato il viso di Cavendish in una maschera tesa, scheletrica. Per il giovane astronomo, l’inglese era solo un vecchio con gli occhi arrossati dalla mancanza di sonno e un tic nervoso alla guancia.
«Hai passato un brutto momento» disse Cavendish, con voce roca, rotta.
«È stata solo colpa mia» ribatté Schmidt.
«Assolutamente no» si costrinse a dire Cavendish. «Qualcuno ti ha venduto la droga. Un americano, scommetterei.»
«Diversi americani.»
«Visto?»
Schmidt chiuse gli occhi. Era insonnolito. «Voi siete l’unico che viene a trovarmi, a parte il dottor Reynaud. È ricoverato qui anche lui. Gli ho rotto un braccio.»
«È una frattura da poco» disse Cavendish «e Reynaud ha raccontato a tutti che se l’è rotto da solo inciampando sul tuo letto.»
Schmidt scosse lentamente la testa. «Ho demolito la stanza. Me l’hanno detto. Io non ricordo nulla.»
«Non è colpa tua» insistette Cavendish. «Non devi prendertela con te stesso.»
«E con chi, allora?»
Cavendish fece per rispondere, ma le parole non volevano uscire. Si alzò dalla sedia su cui era appollaiato, raggiunse a fatica la finestra, guardò fuori. Il sudore gli imperlava la fronte.
Ti costringono a farlo, urlava una parte della sua mente. Ti hanno dato ordine di farlo. Ma tu puoi ribellarti. Non sei obbligato a ubbidire.
Il respiro gli si bloccò. Boccheggiò di dolore.
«Non posso» mormorò.
«Cos’ha detto?» chiese Schmidt dal letto.
Cavendish si girò verso l’astronomo. Gli tremavano le gambe, e lo stomaco era squassato dal dolore.
«Non… Non è colpa tua» ripeté, e il dolore diminuì un poco. «Gli americani… ti hanno costretto a venire qui, ti hanno strappato alla tua casa, ai tuoi studi…»
«Anche alla mia ragazza.»
«Sì. Vedi?» Continuare a parlare era un sollievo; il dolore svaniva gradualmente, «Non puoi darti la colpa di quello che è successo. Sono i maledetti yankee che hanno condotto il gioco fin dall’inizio.»
Schmidt annuì. «Potrei essere a casa, felice e contento. In vita mia non ho mai preso niente di più forte dell’erba, prima di arrivare qui.»
Come una marionetta mossa da fili invisibili, Cavendish raggiunse la sedia accanto al letto. Anziché sedersi, appoggiò le mani sullo schienale.
Un’ondata di dolore lo travolse; quasi cadde in ginocchio.
«Stoner!» esclamò.
«Cosa?»
Fissando il giovane astronomo con occhi velati di dolore, Cavendish disse: «È Stoner che sta dietro a tutta questa faccenda.»
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