«Cosa stai facendo?» ruggì Markov. «Cos’è?»
Dimenticato il dolore, avanzò su sua moglie. Lei si alzò dal letto, indietreggiò, il viso segnato da confusione e vergogna.
Markov passò lo sguardo da sua moglie alla valigetta. Afferrò la valigetta, l’alzò sopra la testa.
«No!» urlò Maria, balzandogli addosso.
Markov scaraventò la valigetta contro la parete. All’impatto col cemento, si fracassò in due.
«Non sai cosa stai facendo!» strillò Maria, e tentò di graffiarlo.
Lui la ributtò sul letto, corse all’apparecchio elettronico. Una luce rossa era ancora accesa. Con furia gelida, Markov abbassò il piede, ruppe il vetro, incrinò la plastica. Colpì e colpì, finché della valigetta restarono solo schegge di vetro e frammenti di circuiti stampati.
Maria era stravolta. «Hai… Hai distrutto un’importantissima proprietà dello stato.»
«Zitta, donna» ruggì lui «e ringrazia il cielo se non ti riservo lo stesso trattamento. Non so a cosa servisse quell’apparecchio, ma certo a niente di buono, questo è evidente.»
Maria fissò i resti della valigetta e scoppiò in singhiozzi. «Ci uccideranno tutte due, Kirill. Ci uccideranno tutt’e due.»
«Che ci uccidano!» urlò Markov, «Forse è meglio morire.»
Rifiutò come inutile ogni tentativo di calcolare in base a princìpi teorici la frequenza con cui le forme di vita intelligente si presentano nell’universo. La nostra ignoranza dei processi chimici grazie ai quali la vita è nata sulla Terra rende privi di significato questi calcoli. In base ai meccanismi della chimica, la vita potrebbe essere abbondante nell’universo, o potrebbe essere rara, o potrebbe non esistere affatto al di fuori del nostro pianeta. Ciononostante, abbiamo buone ragioni scientifiche per portare avanti la ricerca di prove d’intelligenza con una certa speranza di risultati positivi… Le società di cui con maggiori probabilità potremo osservare le attività sono quelle che si sono spinte, sia per motivi positivi o negativi, ai massimi risultati permessi dalle leggi della fisica.
Arriviamo così al mio punto principale. In un arco di tempo sufficiente, esistono pochi limiti a ciò che può fare una società tecnologica. Prendiamo in primo luogo la questione della colonizzazione…
Freeman Dyson
Disturbing the Universe , 1979
Stoner sedeva solo nel separé d’angolo, i piedi sul sedile che aveva di fronte. Sul tavolo, in un secchiello di plastica, una bottiglia di champagne vuota a metà.
“Che serata favolosa” si disse. “C’è da divertirsi da matti, vecchio mio.”
La folla del dopocena stava riempiendo il locale. Qualcuno aveva fatto partire sullo stereo della disco music assordante; per farsi sentire, bisognava urlare. Ogni tanto qualcuno si avvicinava al tavolo di Stoner, ma lui allontanava tutti senza eccezioni.
“Forse dovrei andare all’alloggio di McDermott, a vedere se lei è davvero lì. E se c’è? Cosa faccio? La trascino via per i capelli?”
Tolse la bottiglia dall’acqua gelida, si riempì il bicchiere. Lo champagne era piuttosto insipido. “Sarà della California” pensò, e guardò l’etichetta. Stato di New York. Rimise la bottiglia nel secchiello con tanta rabbia che un po’ d’acqua gelida gli si spruzzò addosso. Con una smorfia, riportò i piedi sul pavimento.
“All’inferno, non posso nemmeno ubriacarmi quando ne ho voglia.”
La porta del Circolo si spalancò talmente forte che il colpo fece sobbalzare tutti. Sulla soglia apparve Schmidt, spalle piegate in avanti e testa bassa, come se volesse lanciarsi alla carica.
Per un attimo, tutte le conversazioni s’interruppero. Restò solo la disco music; e il respiro pesante, ansimante di Schmidt sembrava andare a tempo col ritmo sincopato della musica.
Stoner tornò al suo champagne. La gente riprese a parlare. La folla si muoveva, rideva, beveva. Ma Schmidt, gli occhi puntati su Stoner, superò il banco, si diresse verso il separé d’angolo.
«È tutta colpa tua» disse a Stoner.
Stoner alzò la testa a guardarlo.
«Tu te ne stai qui a bere champagne» disse Schmidt, con voce solo leggermente impastata «e intanto costringi tutti a restare in questo buco di merda.»
«Che cavolo stai dicendo?» chiese Stoner.
«Sicuro, tu bevi champagne e aspetti che ti diano il Nobel, e noi qui a marcire!» rispose il giovane astronomo, a voce più alta.
«Siediti» disse Stoner «e piantala di fare la figura del cretino.»
«Te lo faccio vedere io chi è il cretino!» urlò Schmidt.
Afferrò Stoner per il colletto e lo sollevò dal séparé, senza il minimo sforzo. Stoner sentì la tibia strusciare contro l’orlo del tavolo, poi venne scaraventato a terra.
Nel Circolo, tutto si fermò. Anche la musica.
«Champagne!» urlò Schmidt, scaraventando via furioso bottiglia e secchiello.
«Che diavolo ti succede?» gridò Stoner, rialzandosi. Nel locale, nessuno si mosse: paralizzati, stupefatti, tutti guardavano loro due.
Schmidt raggi: «È tutta colpa tua!» e si lanciò su Stoner, afferrandolo alla gola. Le sue dita erano come acciaio sulla trachea di Stoner. Stoner boccheggiò, completamente senza fiato.
D’istinto, Stoner strinse le mani, aprì di scatto le braccia e colpì i polsi di Schmidt, costringendo l’altro a lasciare la presa.
«Sei pazzo» riuscì a dire, con un filo di voce.
Ma Schmidt, stravolto, gli urlò: «Vuoi rubarmi tutto!»
Con l’angolo degli occhi, Stoner vide aprirsi la porta del locale ed entrare Jo. Aveva i capelli bagnati. La ragazza, a bocca spalancata, restò a fissare i due uomini.
Schmidt balzò su Stoner. L’americano vide arrivare il pugno, ma la sorpresa lo fece reagire troppo lentamente. Il pugno fortissimo dell’olandese lo colpì alla guancia. Stoner, sbalzato indietro, cadde riverso sul tavolo. Prima che potesse rialzarsi, Schmidt gli fu addosso: gli piantò le ginocchia sulla schiena, cominciò a tempestargli di pugni le spalle e la testa.
«Colpa tua! Colpa tua!» urlava Schmidt a ogni pugno.
Stoner capì che stava per svenire, e capì anche che Schmidt lo avrebbe ucciso a forza di pugni mentre tutti gli altri stavano a guardare. Quando fossero usciti dallo shock, sarebbe stato troppo tardi per aiutarlo. Con puro istinto animale, appoggiò un piede sullo schienale del sedile e spinse. Avvinghiati, Schmidt e lui precipitarono giù dal tavolo, caddero sul pavimento, e Stoner riuscì a liberarsi dalla presa folle dell’altro.
Per un attimo, i due si staccarono.
Stoner vide gli occhi dell’olandese. “È pazzo!” Schmidt aveva i capelli che gli scendevano sul viso, gli occhi dilatati, la bocca aperta. Ansimava e ringhiava. Stoner sentiva in bocca il gusto del sangue, e ogni muscolo del suo corpo pulsava di dolore.
“Mi ucciderà!” urlò la sua mente. “Mi ucciderà, se non lo fermo.”
Si rialzarono assieme. Stoner indietreggiò d’un passo, sfiorò col tallone la bottiglia di champagne. In quel punto, il pavimento era bagnato.
Con un ringhio, Schmidt balzò avanti. Stoner scartò di lato, colpì l’altro alla rotula con un calcio, lo mandò disteso a terra.
Schmidt si sollevò immediatamente, come se non sentisse il dolore, come se non esistesse dolore. Si era tagliato una guancia; il sangue gli scendeva lungo il collo, sotto la camicia. I suoi occhi erano un mare bianco, le labbra tirate a scoprire i denti.
Schmidt scattò di nuovo. Stoner cercò di scartare, ma il braccio proteso dell’altro lo colpì al collo. Precipitarono tutte due contro la parete. Stoner spinse via Schmidt e cercò di rialzarsi. Schmidt afferrò la bottiglia vuota di champagne, l’agitò a mo’ di clava.
Stoner indietreggiò, accucciato, le mani protese; e risentì la voce del suo istruttore: “Le arti marziali non sono un gioco! Non servono a fare punti, servono a salvare la pelle!”.
Читать дальше