Schmidt avanzò su di lui, brandendo la bottiglia. Un ringhio smorzato gli usciva dalla gola. Stoner studiò i piedi dell’altro, si costrinse a concentrarsi su quello che doveva fare, calmò il ritmo del respiro, riportò il corpo in equilibrio.
“Nessuno alzerà un dito per aiutarmi” notò con una parte stranamente distaccata della mente. “O pensano che sia una faccenda privata, o hanno paura di farsi male.”
Schmidt roteò la bottiglia in aria. Stoner si accucciò ancora di più e mise tutta la sua forza in un pugno al diaframma di Schmidt. Poi lo afferrò e lo scaraventò contro la parete.
Schmidt si rimise in piedi, tornò alla carica, ma Stoner lo bloccò col braccio. Poi gli tirò un calcio che lo fece precipitare sul divisorio tra i separé, All’impatto col corpo dell’astronomo, il legno si frantumò.
Stoner si chinò sul corpo riverso di Schmidt, lasciò andare il fiato. Jo era ancora sulla porta, e adesso al suo fianco c’era Reynaud, assurdamente vestito d’un pigiama grigio, col braccio fasciato. L’altra gente cominciava ad avvicinarsi, timidamente.
Ma Schmidt, lentamente, si rimise in piedi, la bottiglia ancora stretta in mano, un sorriso macabro sul viso sanguinante. Tutti si immobilizzarono.
“Gesù Cristo!” boccheggiò Stoner. “È peggio di quel mostro di Frankenstein. Niente lo ferma.”
Schmidt ridacchiò come un ragazzino contento di strappare le ali a una mosca, e si lanciò su Stoner.
Stoner soffocò la paura e il dolore che avvertiva e fece ciò che bisognava fare. Lo bloccò, tirò un calcio, un pugno alle tempie. Schmidt crollò in ginocchio. Stoner gli afferrò il polso della destra, diede uno strattone al braccio, tirò un calcio alle costole di Schmidt. La bottiglia cadde a terra. Le costole dell’olandese scricchiolarono. Stoner colpì fortissimo, col taglio della mano, il collo di Schmidt, che precipitò a faccia in giù.
La folla riprese ad avanzare.
«Non avvicinatevi!» boccheggiò Stoner. «È impazzito.»
E Schmidt si risollevò lentamente. La folla sussultò e indietreggiò. “Quel calcio deve avergli rotto le costole” pensò Stoner. “Cosa diavolo ci vuole per fermarlo?”
Il viso distorto in un mostruoso rictus, Schmidt si lanciò alla carica su Stoner, che lo bloccò con un calcio all’addome e un pugno fortissimo sulla spalla. La clavicola di Schmidt scricchiolò.
“Distruggilo” si disse Stoner. “Colpisci le ossa. Abbattilo come se fosse un albero.”
Parve un’eternità. Stoner infuriò automaticamente, senza pensare, senza rimorsi, finché Schmidt non crollò sul pavimento, immobile come la morte.
Reynaud si fece strada tra la folla col braccio sano, seguito da Jo.
«L’ha ucciso!» urlò Reynaud, inginocchiandosi accanto alla forma riversa di Schmidt.
«Non… credo» boccheggio Stoner. «Spero di no. Non ho potuto… È… impazzito…»
Jo lo stava fissando. «Sei ferito.»
«Sto bene. Chiama un’ambulanza… per il ragazzo. Ho dovuto pestarlo… sodo.»
«Ma tu…?»
L’adrenalina stava rifluendo. Tutti i muscoli del corpo di Stoner cominciavano a urlare.
«Riportami alla mia stanza» mormorò, barcollando verso la porta. «Voglio solo coricarmi.»
Ma sulla porta c’erano quattro uomini della polizia militare. Stoner crollò tra le loro braccia.
Cavendish si svegliò lentamente. Socchiuse gli occhi, lottò per allontanare dalla mente le nebbie del sonno. Rabbrividì di freddo. Per lunghi momenti, non riuscì a ricordare perché fosse seduto contro il tronco di una palma, vicino ai campi da tennis davanti all’ospedale.
Gradualmente, i ricordi tornarono. Ricordò Schmidt e le parole folli, false, che gli aveva sussurrato all’orecchio. Lo travolse un senso di vergogna. “Mi controllano. Mi hanno rubato l’anima.”
Scrutò i campi da tennis. Era buio, non c’era nessuno. Appoggiandosi all’albero, si alzò.
Un formicolio enorme gli torturava le gambe, ma il cervello gli si era schiarito. “Il dolore è scomparso!” Le mani gli corsero al viso, ai capelli, come animate da una volontà propria, come cercando di scoprire al tatto se non fosse solo un’illusione, se il dolore non fosse ancora lì in agguato, in attesa di tornare con forza ancor più terrificante.
«È scomparso» sussurrò Cavendish alle ombre della sera. «Scomparso, completamente… Come se qualcuno avesse premuto un interruttore.»
Un interruttore. «Già» si disse. «Un interruttore che possono premere di nuovo a loro piacere, quando decideranno di volere qualcos’altro da me.»
Allontanò dalla testa le mani tremanti. Dentro, però, era perfettamente calmo. La sua mente gli apparteneva di nuovo, se non altro per un po’ di tempo.
E, con una chiarezza che si ha solo quando tutti i pensieri inutili sono scomparsi, Cavendish finalmente capì cosa doveva fare.
E, con la chiarezza assoluta di visione che gli era stata improvvisamente concessa, Cavendish intuì come porre fine alla propria schiavitù.
«So cosa vuole» mormorò a denti stretti «ma non può costringermi a farlo. Io sono un uomo, non uno dei suoi cani condizionati.»
Con decisione estrema, girò la schiena all’ospedale, superò gli alberi, gli edifici, traversò la strada, raggiunse gli edifici sul lato opposto. L’oceano era vicino. Gli occorsero solo pochi minuti per traversare l’isola e arrivare alla spiaggia.
Le onde sciabordavano nel buio. Il mare si stendeva sotto un cielo luminosissimo. Dietro le poche nubi, l’aurora boreale splendeva beffarda.
“So cosa siete, qual è la vostra origine” disse Cavendish, senza parlare, alle luci che danzavano. “Per me è sufficiente. Non potrò incontrarvi direttamente, ma va bene lo stesso. È già molto, per una vita.”
L’oceano gli lambiva i piedi, vivo, pulsante.
Cavendish sorrise alle acque scure. «Sofocle ha sentito questo stesso suono tanto tempo fa» disse. «E gli ha fatto venire alla mente la marea torbida, la risacca della miseria umana.»
C’erano correnti molto forti in quell’oceano spietato, correnti capaci di allontanare un uomo dalla terraferma, correnti che ospitavano i carnivori più efficienti del pianeta.
Cavendish restò in riva all’acqua solo per un momento. Nella sua mente non sfilarono i ricordi del passato. Pensò solo al futuro, un futuro cupo e doloroso di schiavitù a padroni ignoti, inconoscibili.
Con un sorriso che era più una smorfia, sussurrò: «Ma finché ne ho la forza, posso mettere fine a tutto questo.»
Perché, chissà dove, aveva letto che l’unica persona che rende possibile la schiavitù è lo schiavo.
Entrò in acqua, nel caldo liquido amniotico che avrebbe cancellato per sempre il suo dolore. Camminò senza esitare, e il mare gli arrivò alle ginocchia, alla vita, alle spalle. Non pensò alle creature fameliche che lo attendevano, non pensò alle luci in cielo che riempivano la sera di uno scintillio innaturale. E la corrente lo afferrò, e poco dopo Cavendish era scomparso.
Unità aria/mare 504
Nonostante il casco a isolamento acustico, il rombo del motore dell’elicottero stava facendo venire l’emicrania al pilota. Sotto di lui c’era solo l’oceano grigio, vuoto. Al suo fianco, un uomo scrutava il mare con un binocolo.
«E come cazzo pensano che possiamo trovare uno in quest’acqua fottuta senza nemmeno un segnale luminoso?» urlò il pilota sopra il ruggito cacofonico del motore.
L’uomo al suo fianco abbassò il binocolo, si sfregò gli occhi arrossati. «Ordini» gridò.
«Vadano a farsi fottere! Quello stronzo è uscito a nuotare di sera ed è affogato. Ormai se lo sono mangiato gli squali.»
«Lo so» urlò l’altro «e lo sai anche tu, e lo sa persino il comandante. Ma i regolamenti dicono che dobbiamo cercarlo.»
Читать дальше