Carlsen stava osservando i processi mentali di Jamieson con interesse divertito. Quando aveva cominciato a parlare, la maggiore preoccupazione del Primo Ministro era stata quella di assicurarsi il loro silenzio. Dopo un paio di frasi si era convinto che i suoi motivi erano completamente disinteressati. Carlsen pensò che la pietà provata poco prima era stata sprecata.
— Ma è giusto mettere i nostri interessi più o meno privati davanti a tutto, e nascondere questa storia al mondo? — disse. — La gente non ha diritto di essere informata?
— Comandante, questa è una domanda astratta — disse Jamieson. — Come uomo politico, io sono pragmatico. Ho detto semplicemente che ci renderemmo la vita intollerabile. Senza contare il lato morale. Io sono il Primo Ministro di questo paese. Come tale, devo agire nell’interesse della Gran Bretagna. Questa faccenda potrebbe diventare uno scandalo che ci danneggerebbe agli occhi del mondo. Abbiamo il diritto di correre questo rischio?
Heseltine stava per replicare, ma Jamieson lo fermò alzando una mano, e continuò: — Voglio dirvi in tutta sincerità che quello che è successo mi ha lasciato un profondo senso di inutilità. Con tutta franchezza vi dico che passerò il resto della mia vita a ponderarne il significato. Pensando al pericolo scampato mi vengono le vertigini, come se fossi sull’orlo di un abisso. Abbiamo affrontato quel pericolo insieme, e, grazie a Dio, abbiamo trionfato. Sento che questo è un legame fra noi. Aggiungo che mi farò parte diligente perché riceviate tutti il giusto riconoscimento per l’opera prestata. Sono certo che il nostro paese non si dimostrerà ingrato. — Jamieson si versò un altro whisky e sorrise a Heseltine. — Allora, posso contare sulla vostra approvazione?
Heseltine disse: — Come volete signor Primo Ministro.
— Comandante Carlsen?
Carlsen disse: — Se la mettete su questo piano, come posso non approvare?
Jamieson credette di sentire un tono di scherno nelle parole del Comandante, ma la sua espressione seria lo rassicurò. Si rivolse a Fallada. — Voi, dottore?
— E il mio libro? — disse Fallada. — Dovrei rinunciare a scriverlo? — Si capì che aveva fatto uno sforzo per parlare in tono calmo.
— Il vostro libro? — chiese Jamieson, sorpreso.
— Sì, sull’anatomia e la psicologia dei vampiri.
— Santo cielo, no! Che razza di idea! Il libro darà un importante contributo alla scienza. Vi farò anzi avere tutto l’appoggio dell’Associazione Medica. No, no, dottor Fallada, il libro deve essere pubblicato. E vi frutterà la nomina a cavaliere.
— Non mi sembra il caso — disse Fallada, seccato, e si alzò. Jamieson fece finta di non aver notato la sua irritazione.
— E la “Stranger”? — chiese Heseltine.
— Già, la “Stranger” — disse Jamieson, e scosse la testa con aria pensosa. — Ritengo che più presto ce la dimenticheremo, meglio sarà.
Fallada uscì, sbattendo la porta. Carlsen si mosse per seguirlo, e Jamieson gli fece un sorriso da cospiratore. — Parlategli voi, Comandante — gli disse. — È comprensibile che sia sconvolto, ma sono certo che si possa convincerlo a condividere il nostro punto di vista.
— Farò del mio meglio — rispose Carlsen.
Raggiunse Fallada sui gradini esterni. Lo scienziato si stava guardando in giro con espressione irritata, ma vedendo Carlsen si rilassò.
— Non farti ridurre in questo stato da lui — disse Carlsen.
— Non è questo… È che mi disgusta! Quello non è un uomo, è un rettile. Come fa a sapere che il mio libro è importante se non l’ha nemmeno letto?
— Quel libro è importante, che lui l’abbia letto o no. Quindi perché prendersela?
Fallada sorrise, dominando l’irritazione. — Non capisco come tu riesca sempre a restare così calmo — disse.
Carlsen gli mise una mano sulla spalla. — Non è difficile — disse. — Noi due abbiamo cose molto più importanti a cui pensare.
BRANO TRATTO DA: “Matematici e Mostri: Autobiografia di uno scienziato”, di Siegfried Buchbinder (Londra e New York, Anno 2145).
Io sono forse uno dei pochi che udirono Carlsen pronunciare per la prima volta la sua famósa definizione “Inversione del Tempo”.
Questo accadde nella primavera del 2117.
Il professor Hans Fallada, che insegnava da due anni all’Istituto Tecnologico del Massachusetts, veniva spesso da noi, in Franklin Street, sia perché era legato d’amicizia con mio padre, sia perché sua moglie Kirsten era amica intima di mia sorella.
Il professor Fallada aveva cinquant’anni più di sua moglie, ma il loro matrimonio era eccezionalmente felice.
Una tiepida sera d’aprile i signori Fallada erano stati invitati da noi a una cena in giardino. Verso le nove Kirsten Fallada chiamò mia madre per chiederle se poteva portare un altro ospite. Naturalmente mia madre rispose di sì. Mezz’ora dopo i Fallada arrivarono con un uomo che tutti riconoscemmo subito. Era il famoso Comandante Carlsen.
Proprio quel giorno un settimanale aveva pubblicato con grande rilievo la notizia che Carlsen aveva rifiutato oltre due milioni di dollari per il suo libro sui vampiri dello spazio.
Da più di due anni non si sentiva parlare del Comandante Carlsen. Una rivista aveva raccontato che Carlsen viveva in un monastero buddista nel Mare della Tranquillità, sulla Luna, ma, in effetti, la sua assenza dalla scena mondiale era circondata di mistero.
E adesso quella leggendaria figura a tutti nota era entrata nel nostro giardino e si era messa a parlare del modo migliore di arrostire bistecche di renna…
Carlsen aveva quasi ottant’anni nel 2117. Di aspetto ancora vigoroso, spalle dritte e portamento eretto, sembrava molto più giovane. Solo andandogli vicino si notavano rughe sottili intorno agli occhi e alla bocca. Mia sorella affermava che era l’uomo più attraente che avesse mai incontrato.
Inutile dire che passai tutta la serata ascoltandolo ammirato, in silenzio. Era il mio eroe. Come tanti altri ragazzi della mia età, volevo diventare esploratore spaziale. Anche la mia famiglia condivideva la mia ammirazione per Carlsen: era come avere Marco Polo o Lawrence d’Arabia a cena.
Per un paio d’ore la conversazione toccò argomenti generici. Tutti erano contenti e rilassati. Mi permisero persino di bere un bicchiere di birra fatta in casa. Verso mezzanotte mia madre cominciò a insistere perché andassi a letto. Quando me lo ripeté per la terza volta mi alzai da tavola e mi avviai di malavoglia, ma, arrivato davanti a Carlsen per dargli la buona notte, restai un momento lì impalato a guardarlo, poi osai chiedergli: — Posso farvi una domanda?
Mia madre disse: — No. Va’ a dormire. — Ma Carlsen gentilmente mi incoraggiava a parlare.
— State davvero in un monastero sulla Luna? — gli chiesi.
— Non stare a fare domande, Siggy — disse mio padre. — Ubbidisci alla mamma.
Carlsen però, nient’affatto seccato per la mia domanda, sorrise e mi rispose: — No. Non è vero. In questi due anni sono stato in un monastero a Kokungchak.
— Dov’è questo posto? — chiesi, senza badare alle occhiatacce di mio padre.
— Sulle montagne del Tibet.
Ecco dov’era stato. Ecco qual era il rifugio segreto che ogni giornalista avrebbe voluto conoscere, a qualunque prezzo… e la notizia era stata regalata a un ragazzino di dodici anni. Ma io volevo sapere di più.
— Perché non venite ad abitare qui a Cambridge? Nessuno vi disturberebbe.
Carlsen mi fece una carezza sui capelli e disse: — Chissà, forse più avanti… — Poi, rivolgendosi a mio padre: — Torno a Storavan, in Svezia.
Intanto mi ero rimesso a sedere, e nessuno mi disse più di andare a letto, dato che da quel momento Carlsen lasciò da parte ogni reticenza e rispose a tutte le domande. Mia sorella, che da bambina veniva chiamata “Kate Spietta” per la sua insaziabile curiosità, gli chiese perché fosse andato a finire nel Tibet. E Carlsen disse che c’era andato per sfuggire alla pubblicità da quando la rivista “Universe” aveva pubblicato la storia dei vampiri. (Si trattava dell’articolo: “I Killer dell’Universo: La Vera Storia della ‘Stranger’ e di quello che avvenne poi”, scritto da Richard Foster e Jennifer von Geijerstam e pubblicato il 26 gennaio 2112. Più tardi gli autori l’ampliarono, ricavandone un libro dallo stesso titolo).
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