Clifford Simak - Camminavano come noi

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Camminavano come noi: краткое содержание, описание и аннотация

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La crisi degli alloggi, che deve essere molto sentita anche negli Stati Uniti, ha probabilmente ispirato a Clifford Simak questo suo recentissimo libro, dove si dimostra come la sempre più difficile situazione in cui si trovano gli abitanti delle moderne metropoli possa avere, in realtà, un’origine extraterrestre, possa dipendere dalle oscure manovre di una razza d’invasori spaziali. E che l’umanità debba infine la sua salvezza non alla propria intelligenza o alle proprie armi, ma a un’altra «razza», tra le meno nobili del nostro pianeta, non è che una delle molte trovate di questo ironico e movimentato romanzo.

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— Alle sette?

— Non un minuto più tardi. L’appetito mi viene presto.

Joy ritornò al suo tavolo e io ai miei ritagli. Ma anche ripassandoli per la seconda volta non trovai niente di interessante. Li rimisi al loro posto nella busta.

Mi allungai nella poltrona, a pensare alle puzzole e alle strane cose che talvolta fa la gente.

5

L’uomo che sedeva accanto a Bruce Montgomery era calvo. Di una calvizie prepotente, quasi fosse per il suo portatore un motivo d’orgoglio, al punto che mi chiedevo se lì sopra fosse mai spuntato un capello. Una mosca gli svolazzava sul cranio, ma lui non ci faceva caso. Io invece rimasi incantato a osservare l’insetto che passeggiava indisturbato sulla pelle rosea e nuda del cranio, e mi sembrava quasi di sentire il solletico.

Ma l’uomo rimaneva lì seduto, disinteressandosene. Non ci guardava. Aveva lo sguardo fisso al di là delle nostre teste, come se ci fosse qualcosa che lo affascinava sulla parete opposta della sala conferenze. Per quanto lo riguardava, forse non esistevamo neanche. Sembrava non avere personalità, avvolto com’era in quella freddezza immobile. Se non fosse stato per il suo respiro ritmico, si poteva pensare che Bruce avesse preso uno dei manichini in vetrina e l’avesse messo a sedere.

La mosca finalmente scomparve dietro la curva del cranio.

I tecnici della televisione armeggiavano tra cavi e macchinali, preparandosi per le riprese, e Bruce lanciò loro uno sguardo impaziente.

La sala era strapiena. C’erano cronisti della Tv e della radio, reporter delle maggiori agenzie di stampa e un collaboratore del “Wall Street Journal”. Bruce diede di nuovo un’occhiata ai tecnici.

— Tutto pronto? — chiese.

— Un momento solo — disse uno di loro.

Attendemmo che mettessero a posto le telecamere e i cavi. Succede sempre così. Quelli della televisione ci tengono a essere presenti in ogni occasione e si scaldano se non li si chiama, ma appena mettono piede in un posto, creano il caos. Mettono a soqquadro ogni cosa, e gli altri possono solo aspettare, mentre il tempo passa.

Mi misi a sedere e, non so perché, mi venne in mente l’ultima volta che ero stato a spasso con Joy qualche mese prima. Pic-nic con pesca, che divertimento! Era una delle migliori partner che avessi avuto. Inoltre, era anche una brava giornalista, senza aver perso nulla della sua femminilità, come qualche volta succede. Molte donne ritengono che per essere giornalista occorra dimostrarsi dure, aride. È un grave errore. Anche i normali giornalisti non sono come quelli descritti nei film. Sono una manica di specialisti che lavorano sodo.

All’orizzonte ricomparve la mosca. Sbucò sul cranio lucente, abbassò la testa, si spazzolò le ali con le zampe posteriori, rimase ferma un istante, osservò la situazione, e scomparve nuovamente.

Bruce picchiettava con la matita sul tavolo.

— Signori! — disse.

Nel silenzio della sala, sentivo distintamente il respiro dell’uomo che mi sedeva accanto.

In quell’attimo di attesa, gustai ancora una volta lo stile elegante di quella sala, con i tappeti spessi e le pareti rivestite di preziosi pannelli, i pesanti tendaggi e i due dipinti sulla parete dietro il tavolo dei relatori. Ecco, pensai, questo è il luogo-simbolo della famiglia Franklin e dei Magazzini che ha messo in piedi, della sua posizione sociale e della sua importanza per questa città. Ecco la dignità e la virtù, lo spirito civico e il modello culturale che incarna.

— Signori — ripeté Bruce — facciamo a meno dei soliti preamboli. È accaduto qualcosa che, un mese fa, avrei giurato che non sarebbe mai accaduto. Vi esporrò i fatti, e in seguito potrete fare tutte le domande che vorrete.

Tacque un attimo, quasi cercando le parole adatte. Quindi, con il viso teso e pallido, continuò lentamente, scandendo le parole: — La ditta Franklin è stata venduta.

Rimanemmo tutti in silenzio per un momento, non sbalorditi, ma totalmente increduli. Perché, di tutte le cose che uno potesse raccogliere con l’immaginazione, questa era l’ultima a cui ognuno di noi sarebbe mai arrivato. I Magazzini e i Franklin erano diventati una tradizione. Erano lì praticamente da quando esisteva la città. Vendere i Magazzini Franklin era come vendere il tribunale o una parrocchia.

Il volto di Bruce Montgomery era duro e senza espressione, e mi chiedevo come fosse riuscito a dare quell’annuncio, perché si riteneva una parte della famiglia Franklin, perché aveva diretto la ditta, l’aveva curata e se ne era preoccupato per lunghi e lunghi anni.

Cominciarono a piovere le domande, tutte insieme. Bruce ci pregò di fare silenzio.

— Non chiedete a me — disse. — Il signor Bennett risponderà alle vostre domande.

Il signor Bennett, l’uomo calvo, per la prima volta sembrò accorgersi di noi. Distolse lo sguardo dalla parete di fondo e fece un lieve cenno con la testa verso di noi.

— Uno alla volta, prego — disse.

— Signor Bennett — chiese qualcuno dal fondo della sala — lei è il nuovo proprietario?

— No. Sono semplicemente il suo rappresentante.

— E chi è il proprietario?

— Sono spiacente, non posso rispondere a questa domanda — disse Bennett.

— Intende dire che non lo conosce, o…

— Voglio dire che non posso far nomi.

— Ci può fornire l’ammonto?

— Nel senso, naturalmente, di quanto è stato pagato?

— Be’, ovvio.

— Mi dispiace — disse Bennett — neanche questo può essere reso noto alla stampa.

— Bruce! — gridò una voce disgustata. Mongomery scosse il capo: — Le domande al signor Bennet, per favore. Lui risponderà a tutte le vostre domande.

— Ci può dire — chiesi io — quale sarà il programma della nuova gestione? L’azienda continuerà sulla stessa strada del passato? Manterrà immutate qualità e concessione di crediti, e le iniziative…

— L’azienda verrà chiusa — rispose Bennett in tono distaccato.

— Intende… per riorganizzarla?

— Giovanotto — disse Bennett, soppesando le parole — no, affatto. I Grandi Magazzini Franklin rimarranno chiusi. Non riapriranno. Non ci sarà più una ditta Franklin. Tutto finito.

Colsi un’istantanea del volto di Bruce Montgomery. Vivessi un milione di anni, non mi si cancellerà mai dalla memoria l’espressione di shock, sorpresa e angoscia che vi era dipinta.

6

Ero arrivato all’ultima pagina dell’articolo. Gavin stava alle mie spalle, ne sentivo l’alito sul collo, e il tipografo era su tutte le furie perché avevo “spaventosamente sforato” i tempi.

Squillò il telefono.

— Il signor Maynard desidera parlarle non appena sarà libero — mi disse la segretaria del direttore.

— Vengo immediatamente — risposi.

Completai l’ultimo paragrafo e licenziai l’articolo dopo averlo riletto velocemente. Gavin me lo strappò di mano e corse dai compositori. Appena tornato, fece un cenno verso il telefono: — Il Vecchio?

— Sì — risposi. — Suppongo che voglia parlarne. L’ennesimo terzo grado.

Il capo era fatto così. Non perché pensasse che fossimo dei perdigiorno o gli nascondessimo qualcosa o distorcessimo le notizie. Era il giornalista che c’era in lui, immagino. Un desiderio morboso di dettagli, nella speranza che dal colloquio con noi potesse scoprire qualche particolare rimasto in ombra, come fanno i cercatori d’oro quando setacciano accuratamente la sabbia alla ricerca di qualche pagliuzza. Penso che questo gli desse l’impressione di essere lì sul posto.

— È un colpo terribile — disse Gavin. — E salta anche un bel contratto. L’addetto ai rapporti pubblicitari con i Franklin si starà suicidando in qualche angolo.

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