Clifford Simak - Camminavano come noi

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Camminavano come noi: краткое содержание, описание и аннотация

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La crisi degli alloggi, che deve essere molto sentita anche negli Stati Uniti, ha probabilmente ispirato a Clifford Simak questo suo recentissimo libro, dove si dimostra come la sempre più difficile situazione in cui si trovano gli abitanti delle moderne metropoli possa avere, in realtà, un’origine extraterrestre, possa dipendere dalle oscure manovre di una razza d’invasori spaziali. E che l’umanità debba infine la sua salvezza non alla propria intelligenza o alle proprie armi, ma a un’altra «razza», tra le meno nobili del nostro pianeta, non è che una delle molte trovate di questo ironico e movimentato romanzo.

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Mi staccai dal muro e mi avviai verso le scale. Non avevo ancora raggiunto i gradini, quando qualcosa mi costrinse a voltarmi. Non avevo sentito nulla, di questo ero certo, eppure l’effetto fu come se davvero avessi udito un rumore.

Qualcosa mi disse di girarmi, e io mi voltai così in fretta da inciampare e cadere. E mentre cadevo, m’accorsi che la trappola cambiava forma.

Tentai di ripararmi puntando avanti le mani, ma lo feci in modo goffo. Caddi con un tonfo sordo e battei la testa, vedendo le classiche stelle.

Mi sollevai sulle mani e scrollai la testa, tentando di far scomparire le stelle, e intanto la trappola continuava a cambiare.

Le ganasce si erano come ammorbidite e si stavano contraendo in un modo tutto particolare. Le guardai meravigliato senza muovermi, restando lì a terra, con la testa puntellata alle mani per vedere meglio.

La trappola diventava sempre più molle, le ganasce si fusero tra loro. Sembrava una massa di stucco che si rimescolasse e cambiasse continuamente forma. Infine si fuse in un tutt’uno e diventò una palla. E mentre si impastava cambiava anche colore; quando infine divenne una palla, era nera come la pece.

L’oggetto rimase immobile un attimo davanti alla porta, quindi cominciò a rotolare lentamente, come se le costasse un grande sforzo.

E si diresse dritta verso di me.

Cercai di evitarla, ma quella aumentò la velocità, e per un momento pensai che mi avrebbe travolto. Aveva le dimensioni di una palla da bowling, forse appena un po’ più grande, né potevo sapere quanto pesasse.

Ma non mi colpì, mi sfiorò soltanto.

Mi voltai per vederla scendere le scale. Era uno spettacolo davvero buffo. Non saltava sugli scalini come una normale palla: compiva salti brevi e veloci, non alti e lenti; come se ubbidisse a una legge che le imponeva di toccare tutti gli scalini, ma alla massima velocità possibile. Percorse tutta la scala, saltando su ogni scalino, e girò così velocemente l’angolo che sembrò lasciarsi dietro una scia di fumo.

Mi alzai in piedi, corsi alla balaustra e mi sporsi per vederla ancora. Ma era ormai fuori dalla mia vista. Non ce n’era più traccia.

Tornai nell’atrio e lì, sotto la lampada, c’era ancora il mazzo di chiavi, vicino al semicerchio di moquette tagliata.

Mi inginocchiai, raccolsi finalmente le chiavi e, trovata quella giusta, mi avvicinai alla porta. L’aprii, entrai, la richiusi dietro di me, a gran velocità, senza neanche accendere la luce. Poi l’accesi, e andai in cucina. Dopo essermi seduto al tavolo, ricordai che nel frigorifero doveva esserci una caraffa di succo di pomodoro. Ne avevo bisogno. Ne bevvi qualche sorso, ma non riuscii a sentirne il sapore. Quello di cui avevo veramente bisogno era un altro tipo di bevuta, ma ormai ne avevo abbastanza.

Rimasi lì seduto, pensando alla trappola e al perché qualcuno l’avesse messa lì per me. Era la cosa più folle che mi fosse mai capitata. Se non l’avessi vista con i miei occhi, non ci avrei creduto.

Non era una trappola, ovviamente, cioè non una vera trappola. Perché una di quelle normali non si sarebbe trasformata in una palla, rotolando via dopo aver fallito a catturare la preda.

Cercai di ragionarci su, ma la testa non mi aiutava, avevo sonno, ero al sicuro in casa mia e domani sarebbe stato un altro giorno.

Così mandai tutto al diavolo e mi infilai a letto.

2

Qualcosa mi costrìnse a uscire dal sonno.

Mi alzai di scatto. Non ricordavo dove mi trovavo, chi ero. Ero completamente disorientato, ma non ubriaco. Ero ben sveglio, niente affatto confuso, con quella perfetta lucidità di mente che di colpo ti svuota di tutto, con un improvviso lampo di coscienza.

Mi sentivo dentro un nulla silenzioso, vuoto, senza luce; la mia mente fredda e lucida guizzava veloce come un serpente alla ricerca di qualcosa che non trovava, terrorizzata da tanta vacuità.

Poi arrivò il rumore, l’alto, insistente, penetrante, folle rumore, completamente gratuito perché non aveva significato né per me né per nient’altro, ma era fine a se stesso.

Tornò il silenzio, e c’erano ombre che avevano forme: un quadrato semiilluminato che si rivelò essere una finestra, un bagliore proveniente dalla cucina dove la luce era rimasta accesa, una tenebrosa mostruosità accucciata che era una sedia a dondolo.

Il telefono squillò di nuovo nell’oscurità mattutina. Saltai giù dal letto e mi trascinai a tentoni verso la porta che non riuscivo a distinguere. Quando la trovai, il telefono non squillava più.

Attraversai il soggiorno, inciampando nell’oscurità, e mentre stendevo la mano il telefono ricominciò a squillare.

Sollevai il ricevitore e balbettai qualcosa. C’era qualcosa che non andava con la mia lingua. Non voleva mettersi all’opera.

— Parker?

— Chi parla?

— Sono Joe, Joe Newman.

— Joe? — Poi ricordai. Joe Newman era il cronista di servizio notturno al giornale.

— Mi spiace svegliarti — disse Joe.

Risposi con un brontolio irritato.

— È successa una strana faccenda — riprese lui. — Ho pensato di doverti informare.

— Senti, Joe — dissi. — Chiama Gavin. È lui il capocronista, ed è pagato per essere svegliato di notte. Io sono il redattore scientifico.

— Ma questo è successo dalle tue parti, Parker. Si tratta…

— Sì, lo so — interruppi. — È atterrato un disco volante.

— Piantala! Hai mai sentito parlare di Timber Lane?

— Seee, presso il lago, a ovest.

— Bene. Da quelle parti c’è casa Belmont, che è chiusa fin da quando i Belmont si sono trasferiti in Arizona. I ragazzi ci vanno spesso in macchina con le loro amichette.

— Senti, Joe…

— Un momento, Parker, vengo al dunque. Alcuni ragazzi si trovavano da quelle parti fermi in macchina, quando hanno visto un gruppo di palle rotolare giù per la strada. Erano simili a palle da bowling, e sfrecciavano via una dopo l’altra.

— Che facevano?! — non potei fare a meno di esclamare.

— Hanno visto quelle cose alla luce dei fari mentre se ne andavano, e presi dal panico hanno chiamato la polizia.

Cercai di controllarmi, e con voce più calma chiesi: — I poliziotti hanno trovato niente?

— Solo una serie di impronte — disse Joe.

— Come di palle da bowling?

— Sì, chiamiamole pure così.

— Forse i ragazzi avevano bevuto — ipotizzai.

— I poliziotti lo escludono. Hanno parlato coi ragazzi, i quali sostengono semplicemente di aver visto quelle palle da bowling, ma non si sono fermati a investigare, si sono limitati ad andarsene.

Rimasi silenzioso, pensando a cosa dovessi dire. Ma avevo paura, tanta paura.

— Che ne pensi, Parker?

— Non so — dissi. — Forse è tutta immaginazione. O forse si sono divertiti a spese dei poliziotti.

— Ma la polizia ha trovato le tracce!

— Possono averle fatte i ragazzi stessi. Hanno fatto rotolare una serie di palle da bowling su e giù per la strada, scegliendo una zona polverosa. Contavano di vedere i loro nomi sui giornali. Quando si annoiano, inventerebbero qualsiasi cosa.

— Quindi, non te ne occuperesti?

— Joe, ti ripeto, non sono il capocronista. Non è roba per me. Chiedi a Gavin. È lui che decide cosa mettere in pagina.

— E tu non pensi che questo sia interessante? E se ci fosse sotto qualcosa?

— Come faccio a saperlo? — gridai.

Era inviperito con me, e non potevo dargli torto. — Grazie, Parker. Scusami se ti ho seccato — disse Joe, e riattaccò.

— Buona notte, Joe — continuai. — Mi spiace di avere strillato.

Mi fece bene dirlo, anche se Joe non era più là a sentirmi.

Mi chiesi perché avessi cercato di sottovalutare l’episodio, suggerendo che fosse soltanto una ragazzata. “Perché tu hai paura, coniglio” mi disse quella vocina interiore che ogni tanto ci parla. Faresti qualsiasi cosa per convincerti che non è niente. Perché non vuoi che ti si ricordi quella trappola nell’atrio.

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