«Ti prego, Vicky, ti prego» disse Lucas, indicando David.
«Non ho mai fatto niente che possa danneggiarlo» gli assicurò Vicky. «Ma a te farò del male, Lucas Hutchman. Te la farò pagare.»
La consapevolezza che non avrebbe usato la macchina anti-bombe si cristallizzò in Hutchman lentamente, via via che procedeva nella messa a punto conclusiva. Sospettò, per un momento, di aver sempre avuto quella consapevolezza, ma occultata dall’ossessione del progetto in quanto progetto. Adesso che la macchina era una realtà, Hutchman si trovava di fronte a verità molteplici, scoraggianti.
Tanto per cominciare non era possibile far funzionare la macchina su scala limitata. Era un apparecchio tutto o niente , destinato a personaggi tutto o niente , categoria a cui Hutchman non si sentiva di appartenere. In secondo luogo, la situazione internazionale era migliorata. Secondo alcuni osservatori, l’atmosfera si era rasserenata e ci si era sbarazzati di una tendenza inconscia, ma diffusa nel mondo, di usare la bomba. Strettamente collegata con quel fatto c’era, da parte di Hutchman, la riluttanza a procedere lungo il cammino che conduceva inesorabilmente al fallimento del suo matrimonio. Gli era difficile accettare il sacrificio, sull’altare della salvezza di milioni di vite umane, della propria felicità personale, se così si poteva chiamare la sua vita con Vicky. Però la macchina era un dato di fatto reale, più reale di qualsiasi altra cosa. S’imponeva con la sua presenza tridimensionale, non lasciava spazio per illusioni né ripensamenti. E qual era la verità che Lucas doveva accettare? In fin dei conti sono un egoista, un codardo, un mediocre, come tutti gli altri!
Hutchman posò il micrometro con un senso crescente di sollievo, aiutato dalla soddisfazione che si prova quando ci si ridimensiona. Gli bastavano due ore di lavoro per mettere a punto e completare la macchina, ma non era il momento di farlo. Fu tentato di smantellare immediatamente le apparecchiature, ma ormai aveva rotto le dighe della prudenza che, da un mese, aveva innalzato dentro di sé. Guardò la macchina per qualche secondo, rifacendo pace con lei, poi uscì dalla stanza chiudendosi la porta alle spalle.
Più di una volta, durante il ritorno a Crymchurch, mise in difficoltà gli altri guidatori con rallentamenti improvvisi e non giustificati, ma ormai non aveva più fretta. Voleva fare il piccolo cabotaggio, immergersi nel flusso caldo della vita da cui, per un certo tempo, era stato penosamente distolto. Da un pezzo il quadro dei corpi dilaniati non compariva più nelle sue visioni, ed era di nuovo un uomo, come tutti gli altri. Di tanto in tanto, mentre guidava nel buio, sospirava profondamente e gli pareva di trovarsi a una svolta importante della sua vita.
Hutchman fu molto deluso vedendo una macchina sconosciuta parcheggiata davanti a casa. Era una coupé a due posti: sembrava marrone, ma era difficile stabilirlo nel riverbero che veniva dalla casa. Lucas notò che la macchina aveva il muso puntato contro il cancello. Forse il guidatore voleva andarsene rapidamente. Certo, se in casa c’era un estraneo, non poteva dire a Vicky le cose che intendeva spiegarle. Accigliato, infilò la chiave nella serratura: non si mosse. Era chiusa dall’interno, a doppia mandata.
Hutchman uscì dal porticato, esaminò la casa e notò che l’unica luce era un debole riflesso che proveniva dalla finestra della camera di David. C’erano visite in casa, e le luci non erano accese! L’enorme sospetto che gli balenò alla mente lo fece dirigere piano verso l’ingresso laterale. Doveva entrare! Anche quella porta era chiusa. A questo punto ritornò di corsa alla porta principale. Stavolta le luci del soggiorno erano accese. Bussò finché la serratura scattò. In piedi nell’ingresso c’era Vicky, con indosso un chimono di seta azzurra.
«Ma cosa fai?» domandò, fredda. «David sta dormendo.»
«Come mai la luce era spenta e la porta chiusa?»
«Chi ha detto che la luce era spenta?» Vicky rimaneva sull’ingresso, come per impedirgli di entrare. «E perché sei tornato così presto?»
Lui andò dritto verso sua moglie e, senza badare al suo respiro strozzato, spalancò la porta del soggiorno. Un tipo sulla quarantina, bruno e abbronzato, in cui Hutchman riconobbe vagamente il proprietario della stazione di servizio locale, era in piedi in mezzo alla stanza. In quel momento, stava infilandosi i pantaloni su un paio di mutande di raso nero.
«Voi!» sbottò Hutchman, mentre il suo cervello lavorava febbrilmente, con una lucidità inaspettata. «Rivestitevi immediatamente e uscite.» Lo osservò mentre indossava la camicia, notando che, anche in quel momento critico, l’uomo si vestiva come un seduttore, le gambe leggermente tese e i muscoli addominali contratti, mostrandosi nella posizione per lui più lusinghiera.
«È imperdonabile» ansimò Vicky. «Come osi spiarmi, o parlare con quel tono a un mio ospite!»
«Il tuo ospite, comunque, non ha niente in contrario. O ha qualcosa da obiettare?»
L’uomo s’infilò le scarpe e raccolse la giacca dalla sedia, senza dire una parola.
«Questa è casa mia, Forest» gli diceva Vicky. «E non è il caso che te ne vada. Anzi, ti chiedo di non andartene.»
«Be’…» Forest diede un’occhiata a Hutchman, mentre nei suoi occhi la mortificazione lasciava il posto a una certa bellicosità. Rilassò i muscoli delle spalle, come un cobra che allarga il cappuccio.
«Oh, povero me!» disse Hutchman, con finto spavento. Tornò in anticamera, staccò dal muro un lungo machete e tornò in soggiorno. «Ascoltami bene, Forest. Non ce l’ho con te per cosa è capitato prima qui dentro. Ma adesso invadi la mia intimità, e se non te ne vai immediatamente ti ammazzo.»
«Non credergli!» Vicky ridacchiò e si strinse a Forest.
Hutchman si guardò attorno, afferrò una sedia Hepplewhite che suo suocero aveva regalato a Vicky l’anno prima e, con un colpo di machete , spaccò in due lo schienale. Vicky gridò, l’atto di vandalismo fece effetto su Forest che marciò, dritto, verso la porta. Lei fece qualche passo per seguirlo, poi, di colpo, si fermò.
«Non è stata un’idea geniale, rovinare quella seggiola» disse, con distacco. «Valeva un mucchio di soldi.»
Hutchman aspettò che la macchina, di fuori, se ne andasse: allora parlò. «Dimmi una cosa. Era la prima volta che il tuo… ospite veniva qui?»
«No, Lucas.» La voce di Vicky era assurdamente tenera. «No, non era la prima volta.»
«Quindi…» Adesso che non c’erano più estranei davanti a cui fingere, Hutchman si trovava, per la seconda volta in un’ora, a confronto diretto con la realtà. Decise di prenderla di petto. «Allora sono arrivato tardi.»
«Troppo tardi!» Di nuovo la tenerezza crudele.
«Vorrei farti capire come ti sei sbagliata, Vicky. Io non ti sono mai stato infedele. Io…» Hutchman s’interruppe, perché aveva il petto stretto in una morsa di dolore. Tutti questi anni , pensava. Tutti gli anni belli, gettati via. E per che cosa?
«È stata colpa tua, Lucas. Sii abbastanza uomo per affrontare tutto questo senza piangere.» Vicky, mentre parlava, accese una sigaretta e, dietro il fumo, aveva gli occhi duri e trionfanti.
«Va bene» riuscì a dire lui e, per un secondo, gli parve di vedere, tra loro due, la macchina anti-bomba. «Ti prometto che lo supererò.»
«Se avete qualcosa di più o meno privato che interferisce nel vostro lavoro, perché non me lo dite?» Arthur Boswell, capo del dipartimento ricerche missilistiche della Westfield , s’infilò gli occhiali cerchiati d’oro e osservò attentamente Hutchman. Gli occhi, dietro le lenti, erano azzurri e molto inquisitori.
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