Il tappeto interruppe la conversazione riattraversando la finestra per passare nell’oceano — di dove, compiute un paio di capriole, rientrò nel salone accanto a Carol, si scrollò l’acqua di dosso, e tornò a ergersi come a dire: «Visto? È facile».
«Come dicevo,» riprese Carol «sarò anche diventata matta, ma non disposta a credere di poter attraversare la finestra in qualche magica maniera. Solamente, il mio problema è che, là fuori, c’è acqua, e io, nell’acqua, non sono in grado di respirare. Senza il mio equipaggiamento subacqueo, che ho lasciato da qualche parte in questo labirinto, morirei.»
Il tappeto non si mosse. Carol ripeté la propria dichiarazione sottolineando con gesti i punti essenziali, poi tacque. Dopo una breve attesa, il tappeto cominciò a darsi da fare: le si avvicinò piano piano e, sorprendentemente, s’allargò in tutte le direzioni fino a raddoppiare quasi di mole. Carol non ne fu sbalordita più di tanto, perché, a quel punto, aveva ormai quasi perduto la capacità di esserlo. E da qualunque cosa: anche da un tappeto elastico che, ora, le si annodava sopra la testa in forma di cono.
Ritrattassi di un paio di passi dal tappeto, ora gigantesco, disse: «Oh, oh, credo di capire. Stai formando una cappa d’aria perché io possa respirare!». Rimase immobile un istante, a riflettere. Poi, scuotendo la testa, disse: «E perché no. Non è più raccapricciante di tutto ciò che è accaduto finora».
Col tappeto alto e attorno al capo, puntò dritta, a occhi chiusi verso la finestra. Respirò a fondo al sentire un leggero tocco plastico in diverse parti del corpo, e, all’improvviso, ebbe acqua tutt’intorno a sé, tranne che dal collo in su, dov’era la piccola cappa d’aria. Sebbene le riuscisse difficile tenersi alla disciplina subacquea, s’impose, durante la risalita, di livellare la pressione ogni due, tre metri. Poi, dopo un’aspirazione finale, scattò verso la superficie, mentre, negli ultimi trenta centimetri sotto il pelo dell’acqua, il tappeto si ritraeva.
La Flora Queen era a una cinquantina di metri. «Nick!» gridò con quanto fiato aveva in gola. «Nick, da questa parte!» E nuotò furiosamente verso la barca. Un’onda venne a infrangerlesi sopra. La barca tornò in vista. Una figura di profilo, intenta a guardare dalla fiancata. «Nick!» tornò a gridare, una volta ripresa forza. Stavolta lui la sentì e si voltò. Lei agitò le braccia.
Nick aveva seguito Carol e Troy sul monitor subito dopo la loro discesa iniziale, quando si erano messi alla ricerca della fessura sotto la barca. Presto, però, si era stancato di osservarli nuotare in cerchio ed era tornato alla sdraio e al suo romanzo. Successivamente era andato diverse volte allo schermo, ma non li aveva visti più, perché loro erano passati alla zona della sporgenza.
Al termine di Madame Bovary , era tornato al monitor e aveva constatato, con una certa sorpresa, come ora la fessura sottostanta alla Florida Queen fosse tornata nettamente visibile. Subito dopo, però, si era detto che, evidentemente, aveva avuto ragione nel pensare a un semplice problema di cattiva luce, tanto più che adesso, col sole a picco, il foro della scogliera gli sembrava assai più piccolo di due giorni prima. Dopodiché si era dato da fare sulla barca, fino al momento in cui, squillando, l’orologio da polso non gli aveva segnalato che a Carol e Troy restavano solo circa cinque minuti di ossigeno.
Andato al monitor, aveva osservato le immagini riprese dal telescopio oceanico e trasmesse in tempo reale sullo schermo. Di Carol e Troy, nessun segno. Mi auguro che guardino l’orologio , aveva pensato, cominciando a sentirsi inquieto. A questo punto si era reso conto che non li aveva più visti da un pezzo: di più, che non li aveva visti esplorare la fessura, il loro obiettivo primario. Mentre l’orologio continuava la sua corsa, aveva sentito crescere l’inquietudine.
C’è una spiegazione sola , aveva pensato, respingendo le idee pessimistiche che gli s’affacciavano al cervello: Per esser via da tanto, hanno trovato per forza qualcosa d’interessante alla sporgenza o da qualche altra parte. Per un momento, gli era balenato che avessero trovato un bel mucchio di oggetti rassomiglianti al misterioso tridente recuperato il giovedì.
La seconda lancetta dell’orologio sembrava correre. Un minuto soltanto alla fine dell’aria, ormai… Nervosamente, aveva ricontrollato il monitor. Niente. Il cuore aveva preso a battergli più rapido. Devono essere in rosso , pensava intanto. Anche se sono stati attenti nel consumo, devono esserlo per forza. Un guasto al manometro? Escluso: li aveva controllati lui stesso entrambi dopo il suo arrivo a bordo quella mattina. E poi, un guasto a tutt’e due è tremendamente impossibile… Dunque, è successo qualcosa di grave.
Era passato un altro minuto, e lui si era reso conto solo allora di non aver formulato un piano in caso di mancata ricomparsa dei compagni. Aveva allora passato rapidamente in rassegna le scelte possibili. Sostanzialmente erano due, e nettamente diverse: o infilarsi la tuta da sub e scendere a cercare Troy e Carol lungo la trincea tra la fessura e la sporgenza, o immaginare che, avendo semplicemente trascurato di controllare il manometro dell’aria, Troy e Carol fossero stati costretti a riemergere in un punto qualsiasi ad ossigeno esaurito.
Se scendo , aveva riflettutto, è impossibile che ce la faccia a trovarli in tempo. Un momento di autorecriminazione per non essersi preparato a un’eventualità del genere (infilare e controllare l’equipaggiamento da immersione gli avrebbe ora preso svariati preziosi minuti…), poi: No, non ce la farei comunque. Devo quindi dare per scontato che siano da qualche parte, in superficie. Un altro breve sguardo allo schermo, e si era portato alla fiancata a scrutare l’oceano, un po’ mosso, ora. Ma, di Carol e Troy, nessun segno. Avviato il motore e levata l’àncora, aveva calcolato rapidamente a memoria la direzione generale della sporgenza e si era mosso a regime ridottissimo. Sfortunatamente, dal timone non poteva vedere lo schermo del telescopio, e il tendaletto gli bloccava la visuale posteriore, sicché era stato costretto al moto perpetuo timone-schermo-fiancate e viceversa. Dentro, intanto, al crescere della paura e del senso d’impotenza s’accompagnava quello della rabbia. E il tempo limite per la riserva d’aria di Troy e Carol era ormai scaduto da cinque minuti.
Maledizione, come hanno potuto essere tanto incauti? , s’era detto, continuando a rifiutarsi di concepire pensieri di tragedia. Lo sapevo che non avrei dovuto lasciarli scendere in coppia. Aveva continuato a rimproverarsi, poi se l’era presa con Carol. Mi sono lasciato costringere da quella donna. Ma accidenti a me se non l’aggiusto per bene, quando li avrò trovati… E aveva virato brusco a sinistra.
Gli era parso di udire una voce, ed era corso alla fiancata. Ma da che direzione era venuta? Due o tre secondi ancora, e l’aveva udita di nuovo. S’era voltato e aveva scorto una figura che agitava le braccia. Aveva risposto a gesti a sua volta, ed era corso al timone per cambiare rotta alla barca. Poi aveva estratto una robusta cima dal cassetto e, fissatala a un puntale a lato della scaletta, l’aveva lanciata a Carol mentre la barca accostava. Aveva quindi messo il motore in folle.
Carol afferò la cima senza problemi. Nell’issarla, Nick scrutava l’acqua circostante alla ricerca di Troy, che non si vedeva. Carol aveva ormai raggiunto la scala. «Tu non ci crederai mai…» cominciò, posando il piede sul primo scalino e tentando di riprendere fiato.
«E Troy, dov’è?» la interruppe lui, indicando l’oceano.
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