L’aspetto più terrificante della cosa non era tuttavia il corpo primario in sé, bensì la spaventosa batteria di dozzine di appendici, in gran parte lunghe e di forma affilata, che spiccavano sulle parti superiori e che apparivano infisse nel corpo primario alla maniera di oggetti aguzzi in un puntaspilli. La grande struttura chiara e amebiforme sembrava un versatile sistema di trasporto in grado di trasportare praticamente qualunque cosa, e il cui carico utile fosse costituito, almeno per tale uso, dalla famiglia di bacchette in attività costante che spuntavano dalle parti superiori; bacchette tanto più minacciose, in quanto i loro effettori terminali somigliavano ad aghi, mani, spazzole, denti, e anche a spade e armi da fuoco. Dentro di sé, Carol si vedeva insomma attaccata da un super carro armato in grado di cambiar mole in un baleno e di muoversi, su comando di fili invisibili, in ogni direzione.
Troy si tirò da parte, tentando di calmare la paura e di ritrovare il respiro, ma sempre tenendo d’occhio l’avanzata della cosa, che puntava diritta su Carol. D’un tratto, l’appendice più lunga, uno strumento rossastro di plastica che si biforcava in due corti rebbi a circa trenta centimetri dal corpo primario, si prolungò in avanti di un altro metro, per bloccarsi a soli quindici centimetri dagli occhi di Carol. Con un urlo, Carol la scostò, ma essa tornò di scatto nella posizione precedente. Troy, allora, afferrò il Giove sospeso a mezz’aria e lo scagliò, con ogni sua forza, contro il centro della cosa. All’impatto, la massa informe arretrò, ritraendo immediatamente le appendici; ma, istantaneamente riconfigurandosi, dispose la sua materia in modo da lasciarsi attraversare dalla palla. E, prima di ricadere sul pavimento dall’altra parte, Giove si sollevò in aria e tornò al proprio posto nel sistema solare modello.
La cosa, intanto, aveva arrestato la sua avanzata verso Carol, e, seduta al centro della camera, lasciava che le sue appendici turbinassero come fruste in ogni direzione. Sembrava intenta a meditare una decisione. Troy, allora, trovò il coraggio di afferrare una bacchetta dall’effettore terminale foggiato a spazzola e tentò di spiccarla dalla struttura principale. Istantaneamente, al giunto che la collegava al corpo affluì materiale trasparente di rafforzamento. L’atto di Troy provocò però un cambio manifesto nel comportamento della cosa, che passò a lui come obiettivo. Muovendosi con la massima cautela, e sorvegliando l’inseguitrice con occhio attento a un’altra eventuale estensione repentina dello strumento rosso dai due rebbi, Troy si portò piano piano verso l’apertura. Mentre la cosa puntava su di lui, segnalò a Carol di stare indietro, poi scattò verso l’apertura, inciampando leggermente, nel varcarla, in una bacchetta prolungata.
La cosa non esitò. Con sorprendente celerità, si fece bassa e tozza, espandendo sul pavimento un massimo di superficie esposta e mettendosi così in grado di muoversi con maggior rapidità ed efficacia. Il gruppo di appendici spiegate raccolto in una configurazione compatta da spostamento, si lanciò verso l’apertura.
Carol fu lasciata sola e in ginocchio sul pavimento, il sistema solare modello sopra di lei e sulla destra. Per oltre un minuto, rimase immobile a contemplare distrattamente i pianeti ruotanti e ad ascoltare l’occasionale trapestìo di Troy in lontananza. Poi, dopo un lungo silenzio, si alzò e fece un certo numero di passi, lenti e brevi, per accertarsi di non aver subito danni fisici. Quindi andò all’apertura fra i pannelli e vide che dava su un corridoio che correva a destra e a sinistra.
Troy, nell’uscire, aveva preso a destra. Ricordandosi della macchina fotografica, Carol rientrò per scattare qualche rapida foto ai pianeti sospesi, poi seguì la direzione di Troy prendendo anch’essa a destra. Discese lentamente il nero corridoio, voltandosi spesso per orientarsi sulla luce della camera che aveva appena lasciato. Il soffitto, qui, era appena sopra la testa. Più avanti, il corridoio si divideva in due, e le biforcazioni erano immerse entrambe nel buio. Si mise nuovamente in ascolto, e di nuovo le parve di udire una musica. Ma, di dove provenisse, proprio non avrebbe saputo dire.
Stavolta scelse la biforcazione sinistra, che, ben presto, si restrinse e parve tornare a cerchio nella direzione da cui era partita. E stava già per voltarsi e tornare sui propri passi, quando udì distintamente due rumori — una specie di tonfo sordo seguito da un grattamento — più avanti sulla destra. Respirando lentamente e combattendo la paura, avanzò nel buio. Dopo una ventina di passi giunse a una porta bassa, e aperta, sulla destra. Chinandosi leggermente, diede uno sguardo all’interno, e vide, nella luce smorzata, forme e strutture insolite in un’altra cameretta dalle pareti costituite dagli ormai familiari pannelli curvi e colorati. Sgattaiolò dentro e si drizzò.
Non appena i suoi piedi toccarono il pavimento della camera, in alcuni pannelli delle pareti si accesero luci soffuse, e risuonarono due o tre note di uno strumento musicale. Lo strumento sembrava un organo, e stava apparentemente lontano, in un’altra parte di quella specie di cattedrale, le cui ampie volte ad arco tornavano a vedersi sopra la cameretta. Si fermò, sorpresa, e rimase immobile svariati secondi. Poi, sempre immobile, scrutò metodicamente il nuovo ambiente.
Questa camera aveva pannelli vivacissimi, alternatamente porpora e oro, ed estremamente curvi, e conteneva tre oggetti dalla funzione sconosciuta. Uno sembrava uno scrittoio; il secondo, una lunga panca bassa, larga a un capo e rastremata in punta all’altro; e il terzo un altissimo palo telefonico. Cima e base del palo erano collegate da sedici fili sottili, tesi verso l’esterno e avvolti attorno a un ampio anello a circa un terzo dell’altezza.
Carol poteva camminare tra i fili. L’anello, fatto di materiale metallico dorato, stava un mezzo metro sopra la sua testa, quasi a livello dell’estremità superiore dei pannelli-parete. Afferrato uno dei fili, lo sentì vibrare ed emettere un suono attutito, confuso. Arretrò allora di un passo e provò a tirarlo: echeggiò una nota molto lirica, come di una grande arpa. Sono dentro uno strumento musicale , constatò. Ma come suonarlo?
Resasi conto che mai avrebbe potuto suonare quell’arpa se doveva muoverle attorno per pizzicare le corde a una a una, si aggirò per qualche minuto alla vana ricerca d’un equivalente di archetto.
Andò allo scrittoio, che le si rivelò in breve essere un altro strumento musicale, e molto più promettente dell’arpa. Presentava delle tacche, sessantaquattro in tutto, disposte su otto file e in otto colonne. Ogni tacca, o tasto, produceva, al tocco, un suono diverso. Sebbene da piccola avesse preso cinque anni di lezioni di piano, sulle prime le riuscì difficile suonare anche solo Stille Nacht , su quel misterioso scrittoio. Doveva infatti correlare i suoni prodotti dal tocco dei singoli tasti alle note e agli accordi che rammentava dall’infanzia. Nell’insegnare a se stessa il funzionamento dello strumento, si fermò spesso ad ascoltarne il suono delicato, cristallino, che le ricordava più di tutto quello dello xilofono.
Rimase allo scrittoio parecchi minuti, riuscendo finalmente a suonare un intero verso di Stille Nacht senza compiere un solo errore. Sorrise di compiacimento, il che le distese momentaneamente i nervi. Durante tale interludio, il grande organo lontano (da lei udito brevemente all’entrata nella camera e la cui posizione era ora situabile in un qualunque punto delle parti superiori dell’area-cattedrale) cominciò d’improvviso a suonare. Carol si sentì venire la pelle d’oca, un po’ per la bellezza della musica, un po’ perché essa veniva a ricordarle in quale bizzarro mondo si trovasse. Ma cos’è che suona, quell’organo? , pensò. Sembra un’ouverture. Ascoltò per qualche secondo. Ma… è un’introduzione a Stille Nacht! E quanto creativa, anche!
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