Spalancando tanto d’occhi, Troy le andò vicino e le passò la mano sopra alla ricerca dei fili che la dovevano sostenere. Non ce n’erano. La sfera rappresentante la Terra continuò a ruotare lentamente, descrivendo un cerchio nell’aria al centro della camera. Troy le diede una spintarella: essa vi rispose, ma, cessato l’effetto della forza, tornò al punto di prima e riprese il suo movimento. Troy si voltò. Carol gli dava la schiena, occupata a cercare invano un’altra serie di cassetti e reggendo sempre Marte nella sinistra.
«Ehi, Carol, ti dispiacerebbe venir qui un momento?» disse lentamente Troy.
«No, vengo» rispose lei prima di voltarsi. «Santo cielo, Troy, questi cassetti sono pieni di ogni sorta di…» Voltatasi, notò la Terra sospesa a mezz’aria al centro della camera. «Bello,» azzardò, aggrottando le ciglia «proprio bello. Non sapevo che fossi anche un mago.» Ma, all’espressione perplessa del viso di Troy, le morirono le parole. Si avvicinò per osservare da vicino.
Per una decina di secondi almeno, rimasero entrambi a contemplare in silenzio il lento ruotare della palla azzurra. Poi Troy prese a Carol la sfera di Marte e la lanciò di rovescio verso il soffitto. Marte salì ad arco e ricadde normalmente — fin quasi a livello del pavimento. Dove, come la sfera azzurra, sviluppò un proprio senso direzionale e motorio, che lo portò a fermarsi a circa un metro e mezzo d’altezza, a cominciare una lenta rotazione, e a rimanere sospeso nell’aria accanto alla sfera azzurra raffigurante la Terra.
Carol afferrò tremante la mano di Troy, poi, dopo un po’, si ricompose. «C’è qualcosa in tutto ciò che mi fa venire la pelle d’oca» disse. «Tutto sommato, preferirei vedermela con un millepiedi che mi chiedesse “Chi sei?”, perché, se non altro, avrei una qualche idea di quello che avrei davanti.»
Troy si voltò e la ricondusse ai cassetti semiaperti. «Una volta, facendo l’autostop, mi sono imbattuto in un vecchio hippie con la barba» cominciò, estraendo una palla da pallacanestro coperta di cinghie e fascette latitudinali varianti dal rosso all’arancio — un Giove, insomma — e lasciandosela con ambe le mani dietro le spalle. Sotto lo sguardo affascinato di Carol, Giove andò a raggiungere le altre due sfere e prese a orbitare attorno a un baricentro vuoto nel bel mezzo della camera.
«Guidava un vecchio camioncino scassato e fumava uno spinello. Sulle prime abbiamo parlato poco. Lui mi faceva delle domande e io facevo per rispondere, ma, dopo una frase o due, m’interrompeva per dire: “Tu non sai una merda, amico”. E questa era la sua risposta a tutto.»
Nel raccontare la storia, Troy procedeva allo svuotamento metodico di tutte sei i cassetti, gettando al centro della camera ogni oggetto trovato e osservando il comportamento di alcuni di essi come se si trattasse di cose di tutti i giorni. Ciascuna delle nuove sfere ripeté il comportamento delle precedenti, dando origine a un modello quasi completo e funzionante di sistema solare sospeso a un metro e mezzo circa dal pavimento.
«Alla fine mi sono stancato di ’sto gioco e non ho più aperto bocca. Così, abbiamo fatto chilometri e chilometri in silenzio. Era una bella notte chiara, e lui continuava a mettere la testa fuori dal finestrino per osservare le stelle. A un certo punto, dopo aver ritirato dentro la testa per l’ennesima volta, ha acceso un altro spinello e, porgendomelo, ha indicato le stelle dicendo: “Loro, amico, loro sanno”.
«Chilometri dopo, quando sono sceso, lui s’è sporto fino a lasciarmi scorgere l’espressione stralunata degli occhi, e ha sussurrato: “Ricorda, amico: tu non sai una merda: loro, loro sanno”.»
Mentre terminava il racconto, Carol gli venne accanto ed estrasse dal cassetto inferiore due manciate di frammenti minuscoli e un po’ appiccicosi al tatto. Quando li scosse dalle mani, volarono miracolosamente per la camera fino ad agglomerarsi ai sistemi anelliformi di Saturno e Urano. Carol guardò Troy con aria di sacro sgomento.
«Ha una morale, la tua strana storia?» gli chiese. «Confesso che la tranquillità con cui prendi questa dannata faccenda mi lascia di sasso. Io, per me, se non sono ancora impazzita del tutto, poco ci manca.»
Troy indicò i minuscoli pianeti fluttuanti nell’aria. «Ciò che stiamo vedendo non ha spiegazione in termini di esperienza umana normale. Quindi, o siamo tutt’e due morti, o siamo stati trasferiti in una dimensione nuova, o siamo oggetto di giochetti psichici da parte di qualcuno.» Poi, sorridendole: «Se proprio vuoi saperlo, angelo, ho anch’io una fifa da cagarmi addosso. Ma, come quel vecchio suonato di un hippie, continuo a ripetermi che, a sapere, sono loro. E questo mi dà un certo conforto».
Udirono un lieve fruscìo come di scivolamento, e, da una apertura che andava formandosi tra due pannelli, uno marrone e uno bianco immediatamente a destra dell’ingresso della galleria, sgorgò nella camera un fascio di luce vivissima. Carol si ritrasse d’impulso, coprendosi gli occhi per un istante. Troy balzò anch’egli all’indietro, dapprima, ma poi sbirciò di tra le dita che gli facevano schermo. I pannelli continuarono a ritrarsi sino a formare un’apertura di circa mezzo metro, mentre la camera si empiva di luce. Dall’apertura avanzò lenta una grossa palla illuminata. «Ecco qua il Sol… Tàtata, tùu… Ecco qua il Sol» cantò Troy con trepidazione. «E tutto va ben… Tutto va ben…» Canticchiò qualche altro verso mentre Carol apriva gli occhi.
«Oggesù!» disse lei. La sfera luminosa, grande quanto un pallone da spiaggia, andò a collocarsi nel posto che le competeva nel planetario e inondò la camera intera dei suoi raggi, mentre i pianeti ruotanti e orbitanti ne riflettevano la luce dalla parte esposta. Carol guardava esterrefatta, il viso solcato di lacrime silenziose. Sconvolta, non riusciva a parlare né a muoversi.
Anche Troy era spaventato, ma non al punto da avere impedite le facoltà di reazione. Un momento dopo, scorse tuttavia nell’apertura una cosa che lo fece sussultare di terrore. Il cuore in tumulto mentre sbatteva, apriva, socchiudeva gli occhi per accertarsi che non si trattasse di un’illusione ottica dovuta alla presenza, fra lui e la cosa, della vivida luce del modellino del Sole, si volse d’istinto a proteggere Carol, facendole schermo perché non vedesse.
«Non guardare subito,» le sussurrò «abbiamo un visitatore.»
«Che… che cosa?» fece Carol, confusa e ancora stordita.
Tenendola per le braccia, Troy si spostò con lei di qualche passo verso destra. Si guardò alle spalle, e vide che la cosa era sempre là.
«Vicino all’uscita» disse, voltandosi, incapace di nascondere più a lungo il panico.
Gli occhi di Carol colsero la fonte del terrore di Troy. Che cosa fosse, lei non avrebbe saputo dire: vedeva solo che si trattava di un qualcosa di grosso, di chiaramente minaccioso, e di assolutamente diverso da qualunque cosa lei avesse mai visto o immaginato. Ed era entrato nella camera. Udì le urla frenetiche, incoerenti, di Troy, ma senza afferrarne il significato. Guardò di nuovo la cosa, e il cervello le si ribellò. Apri la bocca per urlare, ma, lì per lì, non ne uscì suono. Cadde in ginocchio sul pavimento. Udì uno strepito di urla dentro di sé, ma che sembravano lontane, lontanissime. Il cervello le diceva «Stai gridando» ma, per qualche ragione, sembrava impossibile — doveva essere qualcun altro.
La cosa le stava venendo incontro. Il corpo vero e proprio era alto sui due metri e mezzo, in quel momento, ma continuava a cambiare forma e mole nel suo ondulare per la camera. Qualunque cosa fosse, sia lei che Troy potevano vedervi non solo attraverso, ma addirittura attraverso parti della sua struttura. Una membrana esterna trasparente appariva delimitare e avvolgere un subbuglio permanente di materia fluida, in gran parte chiara, e fluente e rifluente a ogni movimento. La cosa avanzava alla maniera di un’ameba, come della materia semplicemente diretta nella direzione giusta, ma a una velocità sorprendente. Dietro tutte le superfici esterne c’era una massa sparsa di puntini neri, schizzanti in ogni direzione in quello che appariva essere un controllo delle riconfigurazioni continue che davano movimento al tutto. Inserita presso il centro del corpo primario era anche una mezza dozzina di pezzi di materia grigiastra, opaca — oggetti sui trenta centimetri per trenta.
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